Corso di psicologia dell’associazione “Nicola Saba”

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di Antonio Socal

Già da due anni nel corso di Psicologia dell’associazione "Nicola Saba" lavoriamo sull’Interpretazione dei sogni di Freud. L’anno scorso si trattava di una scelta quasi obbligata perché scattava il centenario della pubblicazione di un testo che segnava, forse come nessun altro, la cultura del novecento. Quest’anno perché c’erano tantissimi argomenti ancora in sospeso, meritevoli comunque di un approfondimento: il Complesso di Edipo, il simbolismo, il rapporto con gli sviluppi poetici, letterari, folklorici e così via.
In un certo senso si può affermare che l’Interpretazione dei sogni segnava l’irruzione dell’inconscio nel mondo della razionalità; alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento tante sicurezze positivistiche erano destinate a incrinarsi sulla scia delle filosofie irrazionalistiche. Ma certo il ruolo della psicoanalisi fu essenziale; tipico il caso dei sogni e della battaglia che Freud fece già solo per farli prendere in considerazione alla comunità scientifica (e non solo), per farli considerare importanti e significativi. Da una parte lo sguardo umano si allargava e integrava fenomeni sottovalutati o completamente ignorati, e questo aumentava improvvisamente la conoscenza e la percezione che noi avevamo di noi stessi; da un’altra parte emergeva il tema dell’inconscio e della sua capacità di farci agire, riflettere, pensare, in base a motivazioni profonde e sconosciute, provenienti da lontano. E tutto ciò riguardava tutti, riguardava la normalità, non rappresentava qualcosa di patologico, di straordinario; casomai lo straordinario (le nevrosi) era la chiave con la quale si era giunti alla scoperta dell’inconscio, ma poi il problema riguardava tutti.
Non a caso subito dopo l’Interpretazione dei sogni Freud scrive la Psicopatologia della vita quotidiana, il libro sui lapsus (da quel momento, appunto, "freudiani"), sugli atti mancati, sulle dimenticanze improvvise e apparentemente inspiegabili. I lapsus ci riguardano tutti, fanno parte della vita di ogni giorno; come peraltro accade per i sogni.
Come accennavamo prima siamo di fronte ad un allargamento di orizzonte: noi da quel momento, nella misura in cui accettiamo l’approccio freudiano, ci pensiamo in una dimensione più ampia, che è capace di integrare anche il negativo e l’irrazionale e che accresce di significato i grandi simboli e le grandi immagini che l’umanità ha elaborato nel corso della sua storia. Anche i temi dei vecchi racconti e delle fiabe parlano di noi e ci vengono in aiuto, rappresentano un orizzonte dentro il quale possiamo pensarci. Se sappiamo aprirci all’inconscio e ascoltarlo con disponibilità e senza preclusioni.



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Pistór - L’arte dei Pistori, oltre gl’inviamenti sparsi per la città, aveva in Venezia due grandi paneterie, o luoghi stabiliti per la vendita del pane. L’una giaceva a S. Marco, presso il Campanile; l’altra in Rialto, di fianco le Beccarie. La prima constava di diciannove botteghe; di venticinque, la seconda. I Pistori negli ultimi tempi della repubblica erano ascritti alla scuola degli Albanesi a S. Maurizio, come ci fa conoscere un decreto dei Dieci, inserito nel Catastico delle Leggi in materia di Biave. Ne riportiamo il brano seguente: 1780, 5 Settembre. In consiglio di X. Decreto che abolisce il Sovegno dei Lavoranti pistori in chiesa di San Matteo in Rialto. Tutti gli argenti ed effetti di esso debbano consegnarsi ai capi della scola di S. Maria e San Gallo degli Albanesi nella chiesa di San Mauritio, composta di tutti gli individui dell’Arte dei Pistori, colla loro responsabilità nella quale non abbiano detti Lavoranti voce alcuna né attiva né passiva. Di tali argenti ed effetti debba formarsi colla loro vendita un capitale intangibile nella Pubblica Zecca, la cui rendita debba servire di qualche compenso all’aggravio che l’Arte suddetta si assume di corrispondere alli Lavoranti nel caso di loro malattia ecc. ecc. Nel citato Catastico, alle rebriche Pistori di Venezia, e Lavoranti Pistori, trovansi varie notizie relative all’arte di cui stiamo parlando. Le botteghe da prestinaio denominarono molte calli, ponti, campi di Venezia.

Pestrìn - Da un pestrino (luogo ove si vende il latte) con annesso stallo di armente, il quale esisteva a S. Stefano fino dal secolo XV, poichè il Sabellico, dopo aver parlato della chiesa e convento di S. Stefano, così continua: In fronte coemeterium; mox est vicus cum bubulis stabulis et lacte omnifariam venali. Della Calle del Pestrin a S. Stefano parle la Cronaca del Barbo all’anno 1540: Nel d. mill.o adì... lujo, de notte, entrò fuogo in cha Bembo in S. Stephano in Calle del Pestrin, la qual casa passa su la salizzada del Traghetto de S. Tomà, et brusò tutta qualla casa con gran danno de alcuni vesini, et alcuni magazini de oio, li quali si disse esser de m.r Z.M.a. Zonta, li quali li fo robbadi. Molte strade di Venezia presero il nome dai pestrini, fra i quali ci piace rammentare quello di S. Maria Formosa, non lontano da un palazzo tuttora posseduto da un ramo della patrizia famiglia Morosini, perciò detto dal Pestrin. Pietro Paraleoni racconta in una sua epistola che, avendo una fiata divampato un grande incendio in questo palazzo, ebbe a rifugiarsi una fantesca, con un bambino fra le braccia, sopra la sommità di una torre, che serviva di specola a comodo della famiglia. Già le fiamme stavano per invadere anche l’ultimo luogo di salvezza, quando un marinajo di Candia, molto esperto nel saettare, afferrò un arco, e scoccò verso la torre una freccia, appesovi un lungo filo, che dalla fantesca fu rimandato abbasso per tirar su un cordicella, e quindi colla cordicella una grossa fune, alla quale attaccato il marinajo ascese prestamente e quindi calò a terra, portando in salvo fantesca e bambino. Il Grevembroch ci offre disegnata una vera di pozzo di stile arabo-bizantino, che esisteva in Corte del Pestrin a S. Maria Formosa. L’arte dei Pestrineri fu eretta in corpo il 30 marzo 1656, e raccoglievasi nella chiesa di S. Matteo di Rialto all’altare S. Giuseppe.

Da Curiosità veneziane di Giuseppe Tassini