Dintorni di Mestre
Dalle origini ai giorni nostri...

a cura di Aldo Ghioldi

Un popolo è ricco di civiltà solamente quando è consapevole delle proprie radici ed è più ricco ancora quando prende coscienza che le sue radici affondano nella fede dei propri padri.
Don Armando Trevisiol

 

 

 

 

 


1900 - Gruppo di famiglia agricola a Carpenedo.

 



1920 - Ragazza di Carpenedo.

 

 


1920 - Interno laboratorio Zampironi durante la lavorazione.

 

 


1920 - Gente di Carpenedo.

 

 


1927 - Vendita del latte lungo Viale Garibaldi.

 


1924 - Interno di una cucina in Via Ca’ Rossa.

 


1930 - Marco Segato - operaio della fornace Casarin. Quasi tutte le case di Carpenedo hanno usato i mattoni fatti a mano da questo signore.

 


1930 - Scene di vita agreste nelle campagne di Carpenedo.

 


1934 - Il vecchio Gallo davanti all’osteria da Manin.

 

 


1940 - Gita in Carrozza.

 

Più volte ho cercato in varie biblioteche qualche documento che mi parlasse della storia di Carpenedo, ma invano. Poco tempo fa il caso volle che entrassi nella chiesetta del cimitero di Mestre dove su un piccolo tavolo faceva bella mostra un volume dal titolo Pagine di Storia di Carpenedo edito dalla Carpinetum, edizione curata da: Don Armando Trevisiol, Firmo Arcangeli, Gianni Finco, Cesare Rallo, Tino Schiavon.
Misi nel cassetto del tavolo l’offerta richiesta e lo portai a casa e dopo averlo letto ho pensato di trascrivere in questo articolo la parte che riguarda la storia di Carpenedo, sperando di fare cosa gradita sia agli autori sia agli amanti della storia di Mestre e della sua periferia.

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Prefazione
Carpenedo non ha alle spalle il passato di Venezia, né quello di Roma e tantomeno quello di Atene. Carpenedo è stato fino a pochi anni fa un piccolo agglomerato di case della periferia di Mestre, città cresciuta in fretta dopo l’ultima guerra e nel passato fu un minuscolo borgo di campagna che, pur essendo pieve fin dall’anno mille, crebbe poco e rimase ai margini della storia pur trovandosi ad un passo dalla Serenissima.
Il sogno di stampare un volume per esporre in maniera organica e secondo i criteri della moderna storiografia, è rimasto finora un sogno e tutto fa pensare che lo rimarrà per sempre, non tanto perché non si sia trovato uno scrittore capace di questa impresa, ma semplicemente perché manca la materia prima: fatti storici di una certa rilevanza, personaggi, opere ed edifici.
C’è stato nel 1848 un prete, Giovanni Antonio Gallicciolli, che ha raccolto dati che ora risultano preziosi e che ha pubblicato in uno zibaldone intitolato Cenni storici antichi e moderni, sacri e profani sopra la villa e la parrocchia di Carpenedo.
Il volume è rimasto impubblicato fino ad alcuni anni fa, poi per merito del Centro di studi storici di Mestre, nel 1984, a cura di Tiziano Zanato, è uscita finalmente un’edizione critica, ora esaurita.
Nel 1990 la parrocchia di Carpenedo ha pubblicato, attraverso il Circolo culturale La Rotonda, un quaderno che raccoglie una serie di articoli apparsi sul mensile Carpinetum, col titolo Pagine di Storia di Carpenedo, volume pure esaurito.
Nel 1997, sempre avendo come base queste ricerche della stessa rivista, è uscito un volume più corposo di 295 pagine, opera in cui si è tentato di sistemare in maniera più organica i risultati di queste ricerche e delle relative modeste scoperte. L’impresa era probabilmente superiore alle forze di chi si è cimentato in questo progetto.
Il risultato di questa operazione non fu molto brillante perché s’avverte più che mai la natura di un collage un po’ approssimativo e non legato al respiro della storia.
Il bilancio di questo sforzo fu certamente positivo, tanto che tutte le mille copie si sono esaurite in pochissimi mesi ed il volume è oggi introvabile.
Comunque questa impresa ha certamente il merito di aver messo in archivio una serie notevole di notizie per cui, se un domani qualcuno vorrà mettere mano ad un’opera più completa ed organica, ha dove attingere.
Ora sono qui a presentare il quarto sforzo di portare a conoscenza della comunità aspetti che molti non conoscono e che altrimenti rischierebbero di andar perduti.
Nel quaderno che pubblichiamo non c’è nessun intento di presentare in maniera scientifica le piccole tessere che siamo andati scoprendo un po’ ovunque, le abbiamo solamente ripulite per renderle più leggibili e poi le abbiamo sistemate in vetrina senza la pretesa di offrirle in ordine di tempo o di argomento, sono così come le abbiamo trovate scavando nelle carte vecchie del passato.
La nostra è più che altro un’operazione di archiviazione e di custodia.
Al materiale in nostro possesso non abbiamo aggiunto nulla, anzi pubblichiamo il tutto con le brevi presentazioni con cui le abbiamo offerte di mese in mese ai lettori della rivista Carpinetum, in maniera tale che i lettori colgano queste notizie pur con le frettolose cornici con le quali sono venute alla luce, perché così hanno almeno il pregio d’essere originali.
Mi pare d’aver detto tutto; mi auguro infine che il quaderno ottenga il risultato dei precedenti perché non c’è molto sul passato della nostra comunità, ma quello che esiste ancora l’abbiamo tutto noi ed è gelosamente custodito non solamente nell’archivio parrocchiale, ma son certo che verrà collocato in posto degno anche in ogni famiglia.
Don Armando Trevisiol

Carpenedo: origini
Verso il 400 D,C. alcuni poveri pastori, venuti da varie località, trovarono buona opportunità di sistemarsi nella zona dove ora sorge Carpenedo in via definitiva. Il fitto bosco di carpini, che costeggiava tutta la via Altinate fino a Dese, forniva materiale abbondante per trafficare e luoghi propizi alla pastorizia ed alla caccia. La vicinanza, poi, dei grandi centri di allora: Eraclea, Jesolo, Altino, Caorle, Aquileia, centri fiorenti di industrie e commerci, ricchi di templi, scuole, ville eleganti, faceva di questa pianura un centro fertilissimo di vita.
Altino, bella ed elegante città, ben popolata, ricca di palazzi e ville ed anche Sede Vescovile, costituiva un importante centro di attività per tutti i paesi che le sorgevano vicino ed in particolare per Carpenedo.
Questa è l’umile origine del nostro paese il quale lentamente si formò in una piccola comunità che prese il nome di Carpineto dal fitto bosco di carpini, con poche capanne e casolari eretti con canne impastate di creta e coperte di paglia, con una Cappella ove ascoltare la S.Messa e dove i figli dei villici potessero essere istruiti nella religione.
Per il piccolo centro di Carpenedo non si presentarono, già fin dall’inizio, periodi di facile vita e tranquillità: infatti Attila, re degli Unni, nel 452 discese in Italia mettendo a ferro e fuoco Aquileia, Concordia, Altino, Mestre, distruggendo ville e castelli e spargendo il terrore fra gli abitanti. Stragi che si rinnovarono negli anni successivi e che portarono alla distruzione completa di Altino il cui vescovo dovette trasferire la sua sede a Torcello.
Verso il 1000 Mestre, Carpenedo, Favaro, Campalto, sopravvissute alle varie stragi dei barbari, vennero incorporate alla diocesi di Treviso, ma anche allora, per le frequenti guerre sorte fra le Signorie e le Repubbliche di Treviso e Padova, Carpenedo, sorta proprio alle porte dei castello di Mestre, diventò facile occasione di rapine e saccheggi, per cui la popolazione venne ridotta alla più squallida miseria, vennero distrutte le sue povere case e gli abitanti dispersi. Finalmente il 28 settembre 1337 Mestre, con tutti i paesi suffraganei, passarono sotto la Signoria della Repubblica di Venezia e incominciò così per Carpenedo un periodo di pace e prosperità.
In tale periodo di tranquillità gli abitanti di Carpenedo cominciarono a ricostruire le loro umili case ed a sistemare le terre per l’agricoltura necessaria alla vita, dando aspetto sempre più uniforme alla zona già assai promettente. Ma tale stato di benessere durò soltanto per qualche centinaio di anni, perché, verso la fine del 1400, gli Imperiali segnarono un’ora tragica per Carpenedo, lasciando triste orma del loro passaggio per incendi, devastazioni e rovine.
Terminata la guerra, Carpenedo in breve tempo divenne ricca ed amena: i nobili veneziani vi costruirono delle ville lussuose dove, fra passatempi di gaie brigate, si riposavano dalle cure degli affari di stato. I contadini si dedicarono con alacrità al lavoro dei campi che davano messi abbondanti e pascoli copiosi al numeroso gregge. Ma intanto, nel 1797, cadeva la Repubblica di Venezia e si costituivano ovunque i Comuni: anche Carpenedo ebbe il suo sindaco e la sua giurisdizione si estendeva sulle parrocchie di Campalto, Favaro e Dese.
Con il sorgere del Regno Lombardo-Veneto, sotto il dominio austriaco, Carpenedo divenne frazione di Mestre: la vita sotto l’Austria si fece misera e dura, fu impoverito il bestiame che divenne insufficiente per i lavori agricoli; gravi erano gli affitti, scarso il lavoro, la situazione quindi si faceva sempre più pesante e dura fino a che gli avvenimenti dei 1848 riaccesero negli animi fondate speranze di liberazione.
Da allora il paese seguì le sorti dell’Italia, dalle guerre d’Africa a quella di Libia, dalla guerra mondiale all’ultima guerra. In quei periodi gran parte della popolazione andò profuga; molti rimasero nelle case ed al lavoro, altri compirono il proprio dovere difendendo la Patria ed immolando sui vari campi di battaglia la loro giovane vita.
Il dopoguerra portò movimento e vita nuova: Carpenedo si estese grandemente; caseggiati e strade si moltiplicarono cambiando così la fisionomia del paese, divenuto ormai un grosso centro borghese, ove con il lavoro e l’amore della propria famiglia, ognuno contribuì alla maggior prosperità del paese.

La storia
Carpenedo, oggi è un quartiere di Mestre, Carpenedo-Bissuola, con i suoi abitanti, i suoi problemi, i suoi progetti per le strade, il verde pubblico, le scuole, i servizi, come tutti gli altri quartieri del Comune. Ma chi lo conosce e osserva con curiosità e con attenzione la struttura e le costruzioni presenti lungo le strade, nota subito ciò che lo differenzia sia da Mestre che dagli altri quartieri, qualcosa che richiama gli aspetti tipici della sua storia.
Da qui nasce l’interesse e l’esigenza di molti abitanti e di gruppi di studio di ricostruire l’antica configurazione, per poter recuperare le tradizioni e le caratteristiche culturali proprie di questo centro abitato.
E ciò si rivela tanto più significativo nel caso di una città come Mestre che, in seguito allo sviluppo industriale massiccio ed improvviso degli ultimi 50 anni, è cresciuta e si è allargata, rischiando di cancellare quasi del tutto la sua identità storica.
Alla sua origine, Carpenedo si delinea alla periferia del centro fortificato, qual era l’antico castello di Mestre, nella zona dell’entroterra veneziano prospicente la laguna. La sua storia segue da vicino le vicende che interessano tutto il territorio mestrino sottoposto, a partire dal periodo longobardo, alla Marca Trevigiana. Da Treviso dipendono i quattro castelli di: Mestre, Asolo, Castelfranco e Oderzo.
L’area territoriale è divisa in regole o comuni. A loro volta le regole comprendono più frazioni o colmelli. Tale divisione amministrativa, in origine, corrisponde a quella ecclesiastica: ogni regola si identifica con la pieve o chiesa matrice da cui dipendono altre chiese minori. Così si presenta il comune di Carpenedo, verso il 1300, diviso in sette colmelli: Carpenedo, Campocastello o Malpaga, Cavergnago, Bissuola, Barban con Ronchi e S.Nicolò. Esso è abbastanza vasto ed è delimitato, a sud dal castello di Mestre, a est da Favaro e Campalto, a ovest dal Terraglio, a nord fino al confine con Marcon, si estende il bosco dei carpini da cui trae origine il nome del paese.
Il Gallicciolli, sacerdote vissuto presso la chiesa di Carpenedo nella prima metà del 1800, autore del manoscritto Cenni storici antichi e moderni sacri e profani sopra la villa e la parrocchia di Carpenedo, ricorda che questa località famosa da tempo per la salubrità dell’aria regalo del grande e folto bosco di Valdemare (zona forte Carpenedo) in origine doveva esser letto di pantanose paludi e sede di selvagge boscaglie, disabitata fino al primo grande migrare delle popolazioni dai centri fortificati cittadini verso la campagna, in seguito alle incursioni di Attila (452). Dopo di che, come Mestre, subisce le incursioni e i saccheggi delle soldatesche di Ezzelino da Romano (1200 circa).
Nel 1337 Venezia conquista il castello di Mestre e vi insedia un podestà, che però era sottoposto al podestà di Treviso, ciò fino alla caduta della Repubblica Serenissima (1797). Solo nel 1807, l’intero territorio viene annesso al Dipartimento dell’Adriatico, sotto la provincia di Venezia. La chiesa invece continua a rimanere sotto la diocesi di Treviso fino al 1927.
Per tutto il 1800 figurano comuni a sé stanti, Carpenedo, Favaro, Zelarino, Campalto, fino alla definitiva annessione al comune di Venezia avvenuta nel 1926.

La gente
Cerchiamo di capire, attingendo dalle fonti d’archivio e dagli scritti in nostro possesso, come vivevano un tempo gli abitanti di Carpenedo, com’erano le abitazioni, quali le attività prevalenti, per avere un’idea più vicina alla realtà e coglier le trasformazioni susseguitesi fino ai giorni nostri.
Facciamo riferimento agli estimi trovati tra i manoscritti della Biblioteca Marciana a Venezia, risalenti alla metà del ‘500, ad alcune mappe del territorio conservate presso l’Archivio di Stato di Venezia, di epoca compresa tra il ‘600 e il ‘700, e infine all’opera già citata del Gallicciolli, che pur essendo una raccolta sparsa di notizie, riesce a dare un quadro vivace e dettagliato del periodo tra '700 e '800.
E’ bello leggere: L’aria è pura, abbastanza salubre, ad eccezione di Bissuola la quale dalle esalazioni delle circostanti paludi è resa nebulosa e grave. E ancora: Il temperamento caratteristico degli abitanti è bilioso flemmatico, che si manifesta dal colore giallogno del volto, alla pelle arida ed appassita, agli occhi languidi, al lento giro del sangue, alla tardità delle operazioni dello spirito. L’indole pieghevole, dolce e mansueta. Sono probi, timorati, inclinati a sovvenire le altrui necessità quantunque essi pure sentano le strette dei bisogni. La gioventù specialmente si distingue pel cuore tenero, sensibile, dolce ed arrendevole. Delitti qui non si commettono e, se si eccettui qualche contraffazione nel vicino bosco di Carpenedo (asportazione di legname), qualche cartuccia di zucchero e caffè di contrabbando, essi non danno pensiero alcuno alle pubbliche autorità.
Neanche riusciamo ad immaginarcelo ora, col nostro ritmo frenetico e il nostro inquinamento! Carpenedo era un borgo di campagna e la popolazione del luogo non era certamente ricca. Viveva prevalentemente di agricoltura, di allevamento di bestiame e del commercio dei prodotti della campagna.
Al comune appartiene fin dal XIV° secolo un fondo di 300 campi, pari all’incirca a 150 ettari di terreno, in parte boschivo, in parte arativo e prativo. Le terre, di proprietà della mensa vescovile di Treviso, vengono concesse dal vescovo a beneficio degli abitanti del comune, il 5 novembre 1360, con contratto a livello, che viene rinnovato ogni ventinove anni, tramite pagamento di un canone stabilito.
Una iscrizione, datata 11 dicembre 1603, riporta l’atto di rinnovo della investitura per opera del Vescovo di Treviso Luigi Molin e richiama gli articoli fondamentali del contratto: gli abitanti godono per intero l’usufrutto delle terre, che però non possono essere né vendute, né donate, né alienate.
La Repubblica di Venezia riconosce tale possesso in base al privilegio ottenuto e come tale ritiene il fondo esente da tasse. La produzione di legname pregiato costituisce per lungo tempo la più alta fonte di rendita per la comunità degli abitanti.
Inoltre rappresenta una valida risorsa di materie prime, largamente impiegata nella costruzione delle case e nello stesso restauro della chiesa e del campanile. Numerose altre terre della zona poi, figurano appartenenti ad enti ecclesiastici e congregazioni religiose. Nei primi anni del ‘400 i monasteri di S.Giorgio in Alga e di S.Cipriano di Murano, risultano proprietari di terre in Carpenedo.
Alla metà del ‘500 nell’estimo dei beni del clero, si aggiungono i principali enti religiosi di Venezia. Sui fondi coltivati sorgono le costruzioni per l’abitazione dei coloni e per le necessità inerenti ai lavori agricoli. Ve ne sono di diversi tipi, ma in genere si tratta di casoni costruiti in legno e coperti di paglia.
Accanto a questi compare qualche casa in muratura coperta di tegole, con il pozzo e il forno. Le vaste proprietà ecclesiastiche sono affidate in piccole porzioni a famiglie locali che coltivano la terra e corrispondono annualmente l’affitto in natura, con frumento, vino ed altri prodotti.

Il patriziato veneto a Carpenedo
Confinanti con le terre succitate, negli estimi del ‘500 compaiono le proprietà di prestigio dei nobili veneziani. I loro nomi spiccano fra gli altri, contrassegnati dall’appellativo che designa l’appartenenza alla classe patrizia. Citiamo Francesco Pesaro, Alvise Michiel, Francesco Morosini, Alvise Badoer. Essi fanno costruire le case di villeggiatura nella campagna dove possono risiedere gran parte dell’anno e gestire direttamente le loro proprietà. A fianco delle semplici costruzioni coloniche, compaiono infatti le prime ville, poste in rilievo per la loro particolare architettura.

Le strade e le case
Il processo di trasformazione che si manifesta a cavallo del XVII secolo può essere meglio evidenziato, per quanto riguarda il nostro territorio, dall’esame di alcune carte topografiche del periodo, custodite presso l’Archivio di Stato di Venezia.
Poniamo a confronto tra loro due rilievi della zona che si riferiscono a due momenti diversi, cioè all’inizio e alla fine del ‘600 e cogliamo immediatamente il cambiamento verificatosi nell’intervallo di tempo.
Nella prima, datata 1603, è rappresentata la zona compresa tra Mestre e Tessera: si distingue chiaramente la cinta di mura che delinea Mestre e verso sud figura l’antica Marghera. I centri minori si notano appena, segnati dalla presenza della chiesa e da poche case raggruppate nelle vicinanze. Carpenedo appare a nord, lungo la strada che dal Terraglio si dirige ad est verso Tessera e Campalto.
Due vie parallele lo collegano a Mestre e corrispondono attualmente a via S.Maria dei Battuti e via Ca’ Rossa. Nella seconda carta appare lo stesso territorio compreso tra Mestre, Carpenedo, Bissuola e Favaro, rilevato però alla fine del '600 (1694): è più dettagliato e risulta di più facile lettura anche per il miglior stato di conservazione. Dall’esame del disegno possiamo verificare la nuova configurazione del territorio, in uno dei momenti determinanti del suo sviluppo. Infatti, proprio in questo periodo, il centro prevalentemente rurale, si trasforma in zona privilegiata di residenza patrizia.
Lungo il percorso delle due strade parallele da Carpenedo a Favaro, appaiono disseminate numerose piccole costruzioni per lo più molto semplici, ad un solo piano, edificate sui fondi coltivati da coloni e fittavoli. In centro di Carpenedo, presso la chiesa, spiccano invece alcuni palazzi di nuova costruzione, posti in evidenza per la loro particolare architettura; la parte centrale di residenza si alza a due o tre piani e nelle immediate vicinanze sorgono, a pian terreno, le costruzioni riservate ai servizi.
Nello stesso ambito territoriale, vecchio e nuovo si compenetrano: accanto alla villa, sono ancora evidenti gli aspetti tipici del mondo rurale. La presenza della hostaria in posizione centrale, a fianco della chiesa, in un edificio in muratura, ne è un esempio significativo.
Le costruzioni rurali sparse nelle vicinanze sono ancora numerose e persistono anche in seguito. In un disegno del ‘700, che rileva i beni appartenenti al Monastero di S.Nicolò del Lido, si notano i caratteristici casoni in legno coperti di paglia. Ancora nell’800 molte case coloniche si trovano costruite completamente o in parte in legno oppure in muratura e spesso sono coperte di paglia.

Economia
La principale fonte di guadagno degli abitanti di Carpenedo era l’agricoltura ed i prodotti preminenti erano: granoturco e vino. Di essi si faceva commercio. Per uso familiare venivano coltivati: fagioli, miglio, avena, grano, canapa, ortaggi. La poca quantità di pere, pesche e ciliege, anche se di bell’aspetto, non era molto saporita. Facevano eccezione i meli che crescevano rigogliosi e davano un ottimo prodotto.
Era pure coltivato il mais cinquantino, quello seminato dopo la raccolta del frumento che, però, cresceva stentatamente ed era il cibo della povera gente. Le donne, nei ritagli di tempo, allevavano galline, colombi, tortore che poi portavano a vendere al mercato di Mestre per poter disporre di un po’ di denaro spicciolo. Ai padroni erano riservati i capponi, le oche, le anatre e i tacchini. Dalle mucche si otteneva il latte che era venduto a Venezia.
Crescevano spontaneamente molte piante medicinali, adoperate per curare le più svariate malattie. Comunissime erano: sambuco, timo, ruta, melissa, basilico, erba luigia, altea, ninfea, menta, finocchio, tiglio. La caccia era poco praticata, in compenso vi era abbondanza di pesce. Se diamo un’occhiata a com’era divisa la popolazione, vediamo che c’erano: agricoltori, artigiani, castaldi.
Di costoro, chi stava meglio di tutti erano i castaldi. Gli artigiani che comprendevano falegnami, fabbri, carradori, calzolai, tessitori, non pativano la fame, ma non potevano mettere da parte qualche soldo in caso di necessità. I contadini, come sappiamo, erano divisi in massariotti e pisnenti.
I massariotti avevano il necessario per vivere, mentre i pisnenti, per poter sopravvivere, in estate andavano a prestare la loro opera (andar a opera, come si diceva) nelle terre degli altri, nelle altre stagioni si arrangiavano con il commercio spicciolo: vendita di scartozzi per i pajoni, di frutta e verdura, di fiori, di piuma d’oca, di gallina o d’anatra per le coltri; vendevano molto bene i lucci, le tinche, le anguille e i pesci persici. Durante l’inverno, quando la terra non si può coltivare, riparavano gli attrezzi agricoli sostituendovi le parti di legno rovinate, fabbricavano sedie rudimentali, sostituivano le borchie alle suole degli zoccoli, oppure i denti ai rastrelli o i manici ad attrezzi vari. Andavano a far siesa, a ripulire cioè le siepi dai rovi che mettevano da parte per il pan e vin.
Anche le donne dovevano lavorare duramente; diverse si recavano a Mestre o a Venezia a vendere latte, uova, polli, erbaggi, funghi, rane, foglie di vite, legna secca. Il guadagno della famiglia era misero per cui, se avessero avuto bisogno delle cure del medico, dovevano essere aiutate e sorrette dai vicini.
Il cibo, in generale, era la polenta di cinquantino, erbe dei campi, pane confezionato con farina di frumento non troppo setaccíata, puina (ricotta) fatta in casa, qualche rara fetta di salame, latte, pesce piccolo fritto nello strutto, che era il condimento principale, ed era conservato nella vescica del maiale. Il tutto era anche spesso poco salato perché il sale costava caro. Tipico nutrimento erano le pojanelle, cioè piccoli pesci azzurri di importazione conservati sotto sale; venivano lavati, infilzati a mo’ di collana, appesi sotto il camino ad affumicare, cotti sulle braci e mangiati con la polenta (tanta polenta e poco pesce).
Per bere usavano l’acqua dei pozzi, che non era molto pura, e un po’ di vino nelle occasioni solenni; altra bevanda era il vino eterno. Ora qualche parola su questa bevanda che molti non hanno conosciuto per il benessere, più o meno effettivo oggi esistente, ma che era usata anche una cinquantina d’anni fa.
Il vino eterno, detto volgarmente Vin Terno, del vino aveva ben poco. Dopo aver ottenuto il vino, le vinacce venivano rimesse nel tino e ricoperte abbondantemente di acqua. Dopo qualche giorno si spillava il liquido che, filtrando, assumeva un colore rosato ed un gusto di vino. Quando il liquido stava per terminare, si aggiungeva dell’altra acqua e così il vino eterno durava un’eternità. Nei mesi estivi, quando la calura si faceva sentire, ed il poco vino tenuto per le esigenze familiari era esaurito, per calmare la sete dei lavoratori dei campi si usava portar loro dei secchi contenenti acqua acidulata con aceto. Altre bevande erano quasi sconosciute, o poco usate.
Il caffè era usato in casi veramente eccezionali; veniva offerto al medico, alla levatrice, al parroco, qualche volta anche agli ammalati anche perché lo zucchero, allora venduto in blocchi, era una vera leccornia e non era alla portata di tutte le borse.

Malattie
Se si tiene in considerazione la poco salubrità della zona del Colmello e le dure condizioni di vita cui erano sottoposti gli abitanti, non sarà difficile arguire che la mortalità infantile era molto elevata. A questi fattori è da aggiungere anche la profonda ignoranza delle più elementari norme igieniche, dovute principalmente al grande analfabetismo e alle pratiche di fattucchieri vari. I bambini morivano principalmente per vermi, anche se si mettevano loro al collo delle collane di aglio, e per febbri intestinali, non meglio definite.
La scabbia e il tifo erano malattie comuni; facevano la loro apparizione il colera, il vaiolo e le infiammazioni intestinali, il catarro e la tubercolosi. E’ inutile dire che pidocchi, pulci, cimici e scarafaggi la facevano da padroni. Era frequente il vaiolo, ma questo regredì per la scoperta del vaccino; la vaccinazione era praticata due volte all’anno, in primavera e in autunno; la Casa degli Esposti mandava alcuni bambini immuni dal medico condotto il quale estraeva da essi il siero da iniettare a quelli da vaccinare. Le altre affezioni seguivano il loro corso, come la malaria. La Repubblica aveva a cuore la salute pubblica ed aveva degli incaricati a tale scopo.
Il medico condotto era pagato dal Comune, perciò le visite erano gratuite, ma le medicine erano a completo carico dell’ammalato che, come abbiamo visto, non sempre era in grado di sopperire alle spese ed allora interveniva la carità pubblica. Dato il rilevante tasso di umidità prodotto dagli acquitrini e dai numerosi fossati e scoli, erano presenti anche i reumatismi e l’artrite anche deformante. Per sopperire alle spese dei medicinali venivano usati cataplasmi ottenuti dalle erbe spontanee e, su foruncoli e ferite varie, venivano applicate foglie di varia natura.
C’era pure la credenza che certi porri o verruche, potessero essere eliminati solamente dicendo di avere questi piccoli malanni a certe persone che, si credeva, erano in grado di farle sparire solamente per il fatto di esserne a conoscenza. Le malattie del bestiame erano frequenti, ma era credenza che le mucche dovessero per forza essere bolse, cioè tubercolitiche. Qualche donna era specializzata a trattare i galletti per ottenere i capponi.
Queste donne, che per ricompensa ricevevano quanto avevano tolto ai galletti, senza tante cerimonie toglievano le penne posteriori alle loro vittime poi, con le forbici, praticavano un taglio orizzontale sotto la coda, introducevano un dito nella ferita, asportavano quanto dovevano asportare e poi ricucivano con ago e filo. Fatto questo, tagliavano cresta e barbigli disinfettando le ferite con la cenere di legna.
Nonostante la mancanza di qualsiasi norma igienica, era maggiore il numero di capponi ottenuti che quello dei galletti morti.
Le parti asportate dai galletti venivano consumate a cena.