So di non
sapere, diceva Socrate e anche noi come lui, ma non dobbiamo vergognarcene
perché volendo possiamo andare alla ricerca, come facevano gli
antichi, di un uomo sapiente. Lignoranza è come una malattia;
quando siamo ammalati ricorriamo al medico perché, con la sua
scienza, può guarirci; lignoranza però è
la malattia dellanima perciò dobbiamo avvalerci di un medico
dellanima: il sapiente, ossia colui che ama gli uomini e che pertanto
può aiutarci a trovare la nostra strada giusta da percorrere.
La sapienza, non è mai separata dalluomo che la esprime.
Ciò premesso possiamo parlare di politica e domandarci chi possa
esser luomo politico, quali qualità debba possedere per
governare: deve essere forte, nobile, ricco, bello oppure deve possedere
altre qualità? Deve essere uno scienziato come il medico oppure
deve possedere la scienza politica? Deve cioè saper rispondere
alla domanda su cosa si debba fare per vivere bene. Se vogliamo trovare
risposta allora dobbiamo rivolgerci ad un uomo sapiente, così
se siamo imbarcati su una nave ci affidiamo al suo comandante se vogliamo
viaggiare sereni e tranquilli verso la meta fissata.
Nella realtà attuale, quella che viviamo ora, la politica è
avvertita come un ambito separato. Un ambito volontario, nel quale ciascuno
di noi può entrare od uscire a proprio piacimento o addirittura
non entrarci mai. Noi non ci identifichiamo con nessun ambito, nemmeno
quello della politica. Un professore, ad esempio, non si identifica
come uomo nel ruolo del professore, altrimenti dovrebbe comportarsi
da professore anche fuori della scuola, per strada, in famiglia, con
gli amici ecc. Quando fa il professore, infatti, svolge un ruolo, si
comporta sulla base di regole e tecniche razionali stabilite da altri.
Egli recita una parte, è un attore di un copione scritto da altri.
Lo stesso dicasi per un infermiere, una maestra e così via. Ognuno
svolge un ruolo sulla base di tecniche appositamente acquisite in un
certo ambito. Lo strano della politica è che essa costituisce
lambito che sovrasta tutti gli altri perché dà loro
le regole necessarie al loro funzionamento. Essa cioè governa
tutti gli altri ambiti e, in questo senso, si trova in una posizione
di privilegio. Perché la politica gode di questo privilegio?
Essa rappresenta lambito dove ognuno di noi si manifesta per quello
che veramente è. La modernità infatti, ci fa vivere nascosti
perché nessuno si mostra veramente.
Oggi ognuno di noi si mostra veramente in politica soltanto attraverso
il voto (che costituisce lelemento fondamentale del nostro modo
di partecipare alla vita politica). Paradossalmente, in quel momento
di massima partecipazione noi restiamo nascosti: il voto è infatti
segreto.
Col voto noi eleggiamo i politici, nostri rappresentati. Il termine
eletto, peraltro, è un termine ambiguo perché ci sono
anche gli eletti di Dio. In ogni caso leletto, nel nostro intendimento
dovrebbe essere il migliore, se nessuno poi, andasse a votare non esisterebbe
la politica.
Col voto, in ogni caso, ognuno esprime se stesso, ma non può
essere riconosciuto quando vota altrimenti il suo voto sarebbe invalidato
e quindi risulta spersonalizzato proprio nel momento della sua più
alta partecipazione politica. Emerge allora una grossa contraddizione:
nel momento in cui luomo vota esprime tutto se stesso ma rinuncia
alla propria identità, delegando altri. (A questo proposito gli
inglesi dicevano di non essere più liberi dopo aver espresso
il proprio voto).
Ciò nonostante ogni volta che si vota si rilancia la politica.
Questo è ciò che accade ai moderni. Gli antichi, invece,
trovavano nella politica la più totale identificazione. Solo
attraverso la politica luomo antico trova se stesso, soltanto,
cioè quando è in relazione con gli altri, tanto che Aristotele
definisce luomo animale politico.
Diversamente i moderni, con Hobbes, hanno bisogno della teoria la quale
ha come presupposto fondamentale linimicizia, lisolamento
nello stato di natura.
In Platone e la conoscenza di sé il prof. A. Biral metteva in
evidenza questa radicale differenza precisando, appunto, che gli antichi
greci consideravano la politica latteggiamento che coincideva
con la ricerca di sé ossia quellatteggiamento che parte
dallosservazione del nostro modo di agire.
Ognuno agisce in vista del meglio che corrisponde anche al bene; in
questo senso entra in comunicazione con gli altri. Lagire per
il meglio non costituisce una scelta, infatti nessuno agisce per il
peggio; ognuno, infatti, agisce per il meglio perché vuol essere
felice: lo stesso S. Agostino riconosce questa fondamentale esigenza
nelluomo. Per gli antichi la comunità espressa dalla Polis
ha come fine la vita buona e felice. Gli uomini, dunque, vivono per
essere felici e la politica secondo Aristotele ha questo fine essa perciò
è la scienza più importante. Chi si pone fuori dal meglio,
chi si pone fuori dalla Polis perde se stesso. Luomo quando raggiunge
la felicità è realizzato, diversamente è un uomo
mancato. Se è realizzato si trova in piena salute dellanima.
Per la Grecia antica, allora, la scienza del meglio, la politica, non
costituisce un ambito separato ma, al contrario, tutta la vita è
politica intesa come relazione fra tutti gli uomini, alla ricerca del
meglio.
La politica, peraltro, richiama un altro elemento: il governo, meglio
ancora il governo di noi stessi. Ciascuno di noi ha, infatti, consapevolezza
di essere un insieme di passione e ragione, od anche di istinto e ragione,
anima e corpo, di essere composto di un dualismo che può produrre
anche contrasti; ognuno di noi ha allora la misura delle proprie azioni
(migliori/peggiori).
Luomo dunque coincide con le proprie azioni e le nostre azioni
ci rivelano per quello che veramente siamo: esse ricadono anche su noi
stessi, tanto che se agiamo male ne risentiamo. In sostanza i greci
antichi avevano una direzione, quella della felicità, un senso
che nessuno ha mai deciso (Aristotele).
Hobbes ha invece realizzato il toglimento del principio e del fine (la
felicità) togliendo, di conseguenza, anche il senso della vita.
Egli infatti sostiene che la vita non ha senso: la modernità
è razionalità; la vita è movimento e la morte è
la fine del movimento; la morte è allora il male più grande
dal quale perciò vogliamo distinguerci: altro non cè.
A questo punto entra in gioco la scienza, che si concretizza come volontà
di potere contro la natura e contro noi stessi.
Gli antichi non avevano paura della morte poiché il fine era
la felicità o condizione divina, fuori dal tempo, fine a se stessa.
La felicità consisteva nel non aver bisogno di nulla, nemmeno
della vita, ciò che più contava era essere giusti.
In Hobbes invece, la principale preoccupazione è quella di accumulare
potenza acquisendo differenze quantitative.
Se identità vuol dire essere felici, vivendo con gli altri, in
modo da rendere gli altri e noi stessi migliori, i veri uomini politici
sono coloro che si prendono cura di realizzare la vita buona; il suggerimento
di Biral consiste nel chiederci continuamente chi siamo e come agiamo,
questo può essere lautentico atteggiamento politico, giacché
ogni azione è sempre unazione politica.