05/12/03.
Il percorso familiare, intimo, professionale e pubblico di Giovanni
Pascoli (1855-1912) viene supportato dalla lettura di molte composizioni,
tratte da Myricae, da Nuovi Poemetti, dai Canti di Castelvecchio, da
L’Ultimo Viaggio (confrontato con L’Ulisse dannunziano), dalla
successione di numerose strofe di Italy, poemetto sperimentale ardito
per ritmi e linguaggio, da breve esposizione della teoria Il Fanciullino,
e, ancora, da Poemi Conviviali.
Le considerazioni finali insistono nella capacità e la potenza
discreta del poetare di G. Pascoli, nobile spirito che bagna
un maggese di autori ancora carducciani; che irrora il territorio
letterario nazionale di fine ‘800; e che nutre col suo magistero
–gli è riconosciuto- molto successivo comporre in versi
di noti poeti, fino alla metà del secolo scorso.
30/01/04. L’incontro dedicato a Cesare Pavese risulta impegnativo
ed esaltante: notizie biografiche e testi poetici s’intrecciano,
si annodano, faticano (con qualche speranza più dichiarata che
sentita, ma senza illusione) per cadenzare una vita di impegno intenso,
inzeppata di esemplari traduzioni, di attenta editoria, di infelici
rapporti con le donne (tranne forse con Fernanda Pivano, già
sua allieva, alla quale sono dedicate alcune composizioni).
Gli scritti di Pavese hanno influenzato generazioni.
L’opera più alta rimane Lavorare Stanca, una teoria di poesie
divise in sei gruppi, ordinati dall’autore stesso, che formano
un poema: si vive la realtà da desituati, pensando o sognando
l’altrove come luogo esotico; soltanto alla fine
Non c’è cosa più amara che l’alba
in
cui nulla accadrà. ..........
Quando l’ultima stella si spegne nel cielo…
l’uomo solo nota d’assistere un trascorrere di giorni e basta.
La lettura integrale, o di parti, insolita capacità compositiva,
originali angolazioni dei paesaggi urbani o collinari, l’agro agire
di maschi e femmine, portando l’opera –autentico adagio musicale-
alla ricezione eccezionale degli astanti.
La chiusa dell’incontro si avvale del ritmo accelerato di La terra
e la morte e Verrà’ la morte e avrà i tuoi occhi.
E la morte viene a Torino con un colpo di pistola suicida.
05/03/04. L’arte poetica di Sergej Esenin (1895-1925) esplode
e brilla, segnando per sempre la letteratura russa: voce alta, la sua,
dolce e rabida ad un tempo, scapigliata e di sognante malinconia, attraversa
dieci anni di tumultuosi avvenimenti, rimanendo limpida, tecnicamente
e bellamente ordinata e fedele a sé.
Un ambiente povero, contadino, religioso ed oppresso, ma colmo di umano
sentire; e, poi, la rivoluzione russa; le esaltazioni alcooliche pubbliche
e private, le esaltazioni erotiche con Isadora Duncan; le aspirazioni
libertarie presto tarpate; i viaggi al sud e sempre amori brucianti
con donne appassionate e innamorate; il progressivo allucinato sentire
la morte; ed infine la fine, ufficialmente per suicidio, nella stanza
d’albergo: la meteora Esenin s’è consumata.
Così, il terzo incontro tenta un commento storicizzato con cenni
a movimenti letterari ed artistici contemporanei a Esenin, utilizzando
pure i nomi di Blok, Majakovskij, Pasternak.
Alcuni testi in lingua originale sono letti dalla signora Tamara Patrina:
comprensibile la curiosità e soddisfatta sorpresa delle persone
presenti.
14/05/04. Infine Nazim Hikmet (1902-1963). Nipote d’un pascià,
muove le prime esperienze in elevata ed agitata condizione sociale,
in un ambiente familiare di tradizioni ottomane eppure progredito, curato
dalla madre, donna colta, aggiornata e pittrice notevole. Ma è
ancora limbo, finché Kemal Atatürk promuoverà la
fronda militare e le conseguenti azioni politiche per trasformare l’Anatolia
ottomana in Turchia.
Allora Nazim diserta l’accademia navale; con piglio libertario
e nazionalista si porta al servizio di Atatürk, che lo invia ad
istruire i contadini dell’interno: le condizioni di arretratezza
biblica sono l’abbaglio, muovono una tensione di rivolta in Hikmet,
che d’ora in avanti sarà rivoluzionario, sempre. Allora
Nazim dilata l’impegno e intanto scrive. Scrive e viene pubblicato
e acquista notorietà.
Tuttavia, malgrado le notevoli riforme, la condizione dei contadini
non muta; Atatürk rimane nazionalista e per mantenere l’ordine
reprime.
Allora Nazim è contro. Usa la scrittura in versi come antagonismo
politico. Atatürk lo vuole ancora. Nazim si fida e a piedi scappa
verso la Germania, poi devia fino a Mosca per abbeverarsi di rivoluzione;
intanto studia e scrive; conosce Esenin, Majakovskij, Chagall, Pasternak.
Rientra in Turchia: arresto, condanna carcerazione. Scrive Si ammala
Scrive. Tutto diventa testo poetico; da inviare clandestinamente oltre
la grata del carcere, oltre la particolare vigilanza a lui dedicata.
Scrive poesie d’amore e i settantasettemila versi dei Paesaggi
umani, otto libri, di cui poco rimane, eppure sufficienti a testimoniare
un grande e originale poeta, conosciuto nel mondo, ma ancora censurato
e proibito in patria. Sì, perché Hikmet rimane turco,
scrive in lingua turca moderna, sogna una Turchia libera.
Nel 1950, dopo 22 anni di carcerazione, a motivo d’una perorazione
internazionale, l’apparato concede gli arresti domiciliari con
stretta vigilanza poliziesca, che Hikmet elude, tornando venturosamente
a Mosca. La moglie incinta resta ostaggio del governo; in seguito riparerà
all’estero col figlio.
Hikmet viaggia molto, malgrado la malattia; scrive molto, anche 25 lavori
teatrali.
Opportunemente assemblata dal prof. Stoppani, una estesa nota bio-antologica
viene distribuita nei giorni precedenti l’incontro; il 4°.
L’incontro, cosparso e puntellato da sintetiche liriche, anche
dal preveggente episodio del funerale di se stesso, è sostenuto
dalle lunghe narrazioni dei Paesaggi umani, dove s’incontra
una realtà, elaborata da pietas universale, vuoi su delitti
abominevoli, vuoi sulla freschezza o la fatica del vivere, vuoi sulla
desolazione della steppa, vuoi…; ma dove il poeta rivoluzionario
cala l’attimo armonico con voce asciutta e icastica, quasi una
frustata.