Per non dimenticare
Shoà, annientamento di un popolo.
di Lia Finzi
Il 26 gennaio 2004 nell’Aula Magna della S.M.S. Caio Giulio Cesare di Mestre, la professoressa Lia Finzi ha tenuto una conferenza sul razzismo e della sua esperienza personale come perseguitata, essendo di religione ebraica.

 

 


Il campo Ghetto a Venezia

 

 

 


Deportati ad Auschwitz

 

 

 


Deportati ad Auschwitz

 

 

 


Uomini dopo la disinfestazione.

 

 

 


Donne dopo
la disinfestazione.

 

 

 


Non lo sanno.
E’ la strada che porta alla camera a gas.

 

 

 

 


Non lo sanno.
Stanno per essere gassate.

 

L’Italia fascista ha avuto un ruolo attivo nella deportazione.
C’ è qualcuno che pensa e dice: …però gli italiani, in fondo sono brava gente…
Ma ebbero un ruolo attivo soprattutto nel periodo che va dall’8 settembre del ’43 al 25 aprile del ’45, quando l’Italia fu liberata dagli Alleati e dai suoi Partigiani.
In Europa sotto il giogo nazista milioni di individui sono passati nei campi di sterminio.
Milioni e milioni di uomini, donne, vecchi e bambini ebrei, ma non solo, anche di oppositori politici, quelli che non erano d’accordo con i nazisti e con i fascisti, di zingari, di omosessuali, di testimoni di Geova, di militari che non avevano aderito alla Repubblica Sociale Italiana, che non volevano andare a combattere con i nazisti e con i fascisti, di religiosi che hanno aiutato ebrei e persone in difficoltà, di disabili fisici, psichici, di cittadini considerati diversi per qualche motivo.
Vedete ragazzi, parlo soprattutto con i ragazzi perché penso che gli adulti abbiano letto testi, abbiano visto film, anche alla televisione, che mostrano, qualche volta in modo distorto, questi episodi.
Parlo soprattutto con i ragazzi perché come insegnante, anche se sono in pensione da molto tempo, penso che sia giusto che i giovani sappiano, oggi, che cos’è il razzismo. Cos’è la filosofia che teorizza sull’esistenza di una razza superiore. Il razzismo sostiene esserci una razza superiore e, di conseguenza, sulla necessità di eliminare i cosiddetti diversi, senza tener conto che siamo tutti appartenenti alla razza umana.
Per fortuna siamo uno diverso dall’altro. Pensate quanto monotono sarebbe il mondo se fossimo tutti uguali. Ognuno di noi è diverso dall’altro ed è portatore di valori positivi che può comunicare e insegnare agli altri.
E’ una grande ricchezza, è una possibilità di conoscere altre culture, altri usi, altri costumi, altri modi di vivere. E, quindi, non va eliminata la diversità.
Si può essere diversi per cultura, per etnia, per religione, per abitudini sociali. Ci sono stati eccidi spaventosi di zingari, di omosessuali, di malati di mente e anche di oppositori al regime. Ricordiamo la sistematica opera di snazionalizzazione accompagnata da feroci massacri che accaddero dal 1894 al 1918 contro gli armeni per mano dei turchi.
E ancora ricordiamo la distruzione dei cambogiani, degli abitanti indigeni dell’Amazzonia, degli ugandesi, dei kosovari. Abbiamo visto recentemente cosa è successo in Albania. Pulizie etniche pericolosissime, distruzioni di popolazioni.
Certo, vi sono stati e vi sono ancora altri soggetti di discriminazione. Ad esempio, i musulmani vengono definiti, erroneamente, tutti terroristi. Ci sono integralismi religiosi in tutte le religioni, integralismi pericolosi che portano anche ad atti di terrorismo, ma non possiamo dire che tutti i musulmani sono terroristi.
Ma veniamo agli ebrei.
L’antisemitismo esisteva in Europa da molte centinaia di anni. Gli ebrei sono stati cacciati dalla Spagna nel ‘400.
(Scusatemi, faccio un rapidissimo percorso storico, arriverò poi alla mia esperienza diretta che è quella che mi coinvolge e mi fa ancora soffrire).
Gli ebrei furono cacciati dalla cattolicissima regina Isabella, dalla Spagna nel ‘400, erano i sefarditi.
Noi abbiamo sentito oggi della musica clezmer, che appartiene agli ebrei dell’Europa orientale, gli azchenaziti.
I sefarditi venivano dalla Spagna e dal Portogallo.
Spaventosi i pogrom, i massacri, che si sono susseguiti nei secoli, anche nei paesi dell’Est–Europa, dove vivevano gli azchenaziti. Vivevano chiusi in stedt, in piccoli paesi, in speciali zone.
In molte città europee furono costretti a vivere in uno stato di estrema miseria.
Nel 1516 a Venezia nasce il primo ghetto d’Europa. Da lì nasce il concetto di ghettiz-zazione, cioè di chiusura, di emarginazione di una parte di popolazione.
E’ divenuta una parola in uso per indicare alcune zone periferiche delle città definite quartieri – dormitorio.
Il nome ghetto viene dalla parola gittata, per l’esistenza in quel luogo di una fonderia dove venivano costruite le armi per la repubblica di Venezia.
Gli ebrei in questa isola, circondata da canali, che veniva chiusa alla sera, dovevano abitare tutti nel Ghetto.
Il Ghetto lo potete visitare, si trova a Cannaregio. Ci sono cinque sinagoghe, un museo, una biblioteca, monumenti molto visitati da scuole, da turisti, da singoli cittadini.
Qui gli ebrei potevano espletare soltanto pochi mestieri, in genere gli straccivendoli e/o i cambiavalute.
Quello del prestito di denaro faceva molto comodo alla Repubblica di Venezia quando organizzava guerre o viaggi commerciali in Oriente.
Nel 1555 il Papa Paolo IV emanò la bolla Cum nimis absurdum che impose agli ebrei di vivere in un quartiere separato e di portare un segno distintivo. Nacque così il ghetto di Roma e sorsero via via altri ghetti nelle varie città, prima in quelle sotto il dominio del pontificato e poi in molte altre.
Il primo, abbiamo visto, nacque a Venezia. La Serenissima, a fasi alterne nella storia, emanò provvedimenti vari rivolti alla cittadinanza ebraica.
Nel 1789 dopo la rivoluzione francese che sosteneva che tutte le popolazioni dovevano essere uguali in libertà e fraternità, si aprirono le porte del ghetto e gli ebrei poterono uscire e abitare in altri Sestieri della città.
Però solo con l’unità d’Italia, nel 1870, conquistarono pieni diritti con la possibilità di accesso a tutte le professioni.
Con l’emancipazione cominciò anche l’assimilazione.
Ebbero la possibilità di una frequenza scolastica regolare. Nel ghetto studiavano con i loro maestri, privatamente, e non esisteva analfabetismo.
Ma l’accesso scolastico a tutti i livelli fino all’università, permise l’adire a tutte le professioni.
Con l’assimilazione vi fu una ripresa degli stereotipi e di conseguenza parecchie conversioni, per paura, per matrimoni misti o per pregiudizi che volevano nuovamente emarginarli.
Non tutti sanno che Auschwitz, Buchenwald, Terezin e altri campi di sterminio esistevano molto prima del 1943. Molti campi di sterminio furono voluti nel 1940 da Himmler, braccio destro di Hitler. La tragedia nasce in Germania nel 1933 con le leggi di Norimberga, e ancora prima con Main Kampf, libello pedagogico di Hitler che insegna come devono crescere i giovani, belli, alti, biondi, con occhi azzurri, e soprattutto forti, pronti per andare alla guerra per difendere il nazismo.
Ci volle la Shoà per cominciare a sapere. Preferiamo dire Shoà, che in ebraico significa annientamento, anziché Olocausto che vuol dire sacrificarsi spontaneamente, cosa certamente non voluta dagli ebrei.
L’antisemitismo sopravviveva, purtroppo, anche nella Russia di Stalin. E da un romanzo come Focus di Arthur Miller del 1946, da un film come Barriera invisibile di Elia Kazan del 1947, imparammo che un bel po’ di antisemitismo esisteva anche nella liberissima America. Eppure sia la Russia che l’America avevano combattuto Hitler fino a pochi mesi prima.
Non è possibile dire oggi che il genocidio, che Auschwitz, che la Shoà sono tragedie del passato e che non è più necessario parlarne. Primo Levi in tutti i suoi libri ci ammonisce sulla necessità della memoria, di non dimenticare. Certamente egli fu turbato, fino a morirne, dalla tesi che presunti storici, negli anni ottanta, negavano l’esistenza dei lager e delle camere a gas. Solo pochi giorni fa si è scoperto che gli Alleati, dall’alto, avrebbero visto le rotaie e il fumo che usciva dai camini dei forni crematori, ma non hanno buttato bombe per distruggere le rotaie e quei campi. Perciò Primo Levi fece della sua terribile esperienza, che annientò sei milioni di vittime, bambini e donne, vecchi e uomini inermi, una testimonianza militante per insegnare il valore del rispetto della vita umana.
Vediamo cos’è successo nel 1938 in Italia e quindi anche a Venezia. Il 14 luglio del ’38 uscì, da parte del governo fascista, il Manifesto della Razza dove un gruppo di cosiddetti scienziati avevano redatto questo testo, rivisto dallo stesso Mussolini, dando inizio alla campagna razziale, sostenendo l’esistenza di una razza superiore, la razza ariana. Il 5 agosto nasce il quindicinale La difesa della razza, le copie del giornale venivano diffuse capillarmente, in particolare a tutte le testate giornalistiche del regno cominciando così una propaganda tambureggiante. Allora non c’era la televisione, c’era però la radio e, tramite la radio, i giornali, le riviste, venivano veicolati concetti, stereotipi, pregiudizi contro gli ebrei. Le caricature degli ebrei nei giornali umoristici erano tipici: il naso adunco, le dita a rostro per arraffare soldi, fisicamente deformi, dominatori dell’economia italiana e internazionale. Vi assicuro che anche nel ghetto di Venezia, nella Comunità veneziana, gli ebrei facevano parte di una popolazione molto varia e articolata: c’erano dei professionisti e c’erano quelli che avevano un piccolo negozietto o che facevano lavori estremamente modesti. Subito dopo, il governo fascista obbligò la prefettura di fare il censimento dei cittadini di religione ebraica, anche quelli che si erano battezzati, quelli che ormai non erano più iscritti alla comunità e ne censirono ben 2136, mentre quelli che si dichiararono di religione ebraica erano in realtà circa 1400.
Le leggi colsero la comunità ebraica, come tutte le altre comunità d’Italia, in modo improvviso perché la stragrande maggioranza degli ebrei era estremamente assimilata. Così fu anche per la mia famiglia, una famiglia molto laica, direi quasi agnostica. Sapevamo che eravamo ebrei perché uscivamo di classe durante la lezione di religione, secondo quanto deciso dalla riforma Gentile e, poi, dal concordato tra lo stato e la chiesa del ’29. Uscivo di classe assieme ad altre compagne e ci mandavano nella classe parallela. Non è che questa prassi mi colpisse più di tanto. Per il resto, ripeto, eravamo completamente assimilati.
Fino al 1938 si conduceva una vita normale. Anche a Venezia direi come in tutte le altre comunità d’Italia, gli ebrei erano veramente assimilati, erano considerati cittadini italiani a tutti gli effetti. Mio padre aveva combattuto nella guerra del ‘15 - ‘18. Qualche ebreo era stato anche fascista, forse per necessità lavorative più che per scelte ideologiche. Mi piace però sottolineare che i miei furono sempre antifascisti. Comunque il fascismo dal 1938 considerò tutti gli ebrei antifascisti e nemici della patria.
Poi, cosa successe nel 1938? Si susseguirono provvedimenti gravissimi. Vennero licenziati tutti gli ebrei che lavoravano negli enti pubblici e quindi tutti gli insegnanti di ogni ordine e grado, dalla scuola materna all’università, e tutti i bambini, gli scolari vennero cacciati dalle scuole.
Io, nel 1938 mi accingevo a frequentare la V elementare, la mia maestra mi chiamò e mi disse: Lia, da domani non puoi più venire in questa scuola.
Non capivo il perché, il motivo, la ragione, la maestra non me l’ha spiegato.
Questo ordine, firmato dal ministro Bottai, decretava che fin dall’inizio dell’anno scolastico 1938-39 bisognava fare pulizia nelle scuole perciò tutti gli insegnanti e gli studenti ebrei dovevano essere espulsi dalle scuole pubbliche.
Immediatamente la comunità ebraica ha organizzato una propria scuola dove siamo riusciti a continuare gli studi.
Fino al 1943 siamo riusciti a vivere pur con tante difficoltà.
In quell’epoca vivevano nelle difficoltà quasi tutti gli italiani. Nel 1940 era scoppiata la guerra e la guerra è orribile per tutti: i giovani partono per il fronte, difficilmente si trova da mangiare, vi sono distruzioni, bombardamenti… Treviso rasa al suolo, Marghera bombardata… Fatevi raccontare dai vostri nonni come vivevano durante la guerra.
Gli ebrei, oltre ai problemi provocati dalla guerra, vivevano altre grosse difficoltà: erano stati cancellati dagli albi professionali tutti i professionisti (avvocati, medici, ingegneri ecc.). Molti i licenziati. Mio padre, ragioniere, si è messo a tenere amministrazioni di privati per poter tirare avanti. Vi erano poi difficoltà che potrebbero sembrare quasi ridicole: ad esempio, eravamo spariti dall’elenco telefonico; non si poteva andare in spiaggia, l’entrata alle zone del Lido era proibita.
Per strada qualcuno ti urlava dietro, in certi locali pubblici c’era affisso fuori un cartello In questo locale non si accettano né i cani né gli ebrei (proprio come avete visto nel film La vita è bella di Begnini). In molti negozi di ebrei scrissero Angolino, ebrei uguale a spie.
Immediatamente vennero definiti nemici della patria.
I fascisti non tenevano certo conto se uno aveva fatto la guerra del ‘15 - ‘18, se era stato ferito, decorato al valore. Era finita ogni possibilità di riconoscimento anche sul piano civile. C’era chi aveva avuto incarichi presso ai ministeri, incarichi municipali. C’erano stati illustri professori universitari che furono cacciati nel ‘38 e che furono discriminati da tutti i punti di vista.
Io, da bambina ricevevo insulti da monelli e anche da alcune bambine che erano state mie compagne di giochi. Ricordo ancora alcune canzoncine che mi offendevano: Ebreo giudeo cavite el capeo che passa el Signor, doman ti mor; lo faremo batisar co la cassa da sciumar, xe un ebreo che vol crepar, xe un ebreo che xe crepà.
Qualcuno mi urlava: Sporca ebrea.
Mi dicevo: Ma come sporca? (la mia mamma aveva la mania dell’igiene) Ho il collettino bello bianco del grembiulino. Ma perché mi dicono sporca?
Ecco, soprattutto i bambini assorbono dagli adulti concetti negativi. Quanto sono pericolosi ancor oggi quei giovani che portano nei campi sportivi striscioni razzisti che offendono giocatori di colore o stranieri. Bisogna far capire l’errore del loro comportamento.
Passarono gli anni. Il 30 novembre del 1943 arrivò il decreto, firmato da Bufalini Guidi, che ordinava che tutti gli ebrei dovevano essere messi in campi di concentramento.
Quella notte ci sono stati alcuni ebrei prudenti, come mio padre che si è immediatamente attrezzato per vedere come potevamo nasconderci, e ci furono quelli che dicevano: Perché devo andare via? Non ho fatto niente di male, perché devo lasciare la mia botteghetta? Non capivano che questa sarebbe stata la loro fine.
A qualcuno era nato un bambino (è stato portato via un bambino di 40 giorni), qualche altro pensava ai propri vecchi. Come lasciare i genitori anziani? Molti restarono anche per questi motivi. Qualcuno per ignoranza, ma anche per mancanza di disponibilità economica (alla faccia di chi diceva e dice che gli ebrei sono tutti ricchi). Mio padre dovette andare in prestito da amici per poter avere i soldi, tantissimi per noi, pretesi dai contrabbandieri per farci passare in Svizzera.
Abbiamo avuto tanti amici che ci hanno aiutato. Se qualcuno di noi è qui che vi racconta queste storie è perché è stato aiutato da qualcuno, e non era facile aiutare un ebreo perché, se scoperto, avrebbe fatto la stessa fine.
Ma ci sono stati anche i delatori, delatore vuol dire spia.
I tedeschi non potevano sapere le strade, i numeri anagrafici di Venezia che vanno per sestiere fino al 2000 e oltre. Evidentemente sono stati accompagnati da qualcuno, dai fascisti della repubblica sociale quando sono andati a portar via le persone.
E soprattutto ci sono stati gli indifferenti.
Quando vado nelle scuole lo dico sempre ai ragazzi che l’indifferenza è una malattia gravissima, è meglio prendere posizione anche in senso negativo, ma prendere posizione, essere attenti, attivi, costantemente vigili per quello che può succedere di negativo nel nostro paese.
Molti furono indifferenti, dicevo. Ricordo i vicini di casa, tutti sapevano in che condizioni eravamo, pochi si resero disponibili ad aiutarci. Qualcuno ci aiutò e riuscimmo a scappare (non tutta la famiglia però).
Il 5 dicembre ’43 portarono via i primi 246 ebrei da Venezia, non solo nel Ghetto, molti abitavano in altri sestieri, di questi soltanto otto sono tornati. L’ultima sopravissuta è morta la settimana scorsa, si chiamava Amalia Navarro, ci ha lasciato un diario della sua terribile esperienza ad Auschwitz.
Il professore Jona, emerito scienziato, primario all’Ospedale Civile e presidente della comunità, si uccise piuttosto di dare l’elenco dei correligionari che gli avevano ordinato di consegnare.
Quella notte del 5 dicembre gli uomini li portarono al carcere di Santa Maria Maggiore e le donne e i bambini li portarono all’Istituto Foscarini, dove oggi c’è una scuola, e allora era sede di un comando fascista.
Da lì furono portati tutti a Fossoli (Carpi, in provincia di Modena) dove c’era un campo di transito, poi alla fine di gennaio furono trasportati in carri bestiame piombati, tutti ad Auschwitz.
Avevamo avuto sentore dell’esistenza di campi: a Roma la deportazione avvenne nel luglio dello stesso anno e qualcuno aveva visto nella stazione ferroviaria di Padova, alcuni carri piombati provenienti dalla capitale. Dalle fessure uscivano delle mani che gettavano fuori dei bigliettini. Pensavamo che li portassero a lavorare in Germania. Non sapevamo cosa fosse un campo di annientamento, di distruzione, che i vecchi, i bambini, gli ammalati sarebbero stati subito uccisi e messi nei forni crematori. Non era proprio possibile immaginare una cosa simile per una mente normale.
In casa mia, il fatto stesso di essere portati via era parso a mio padre una cosa così grave da doversi attrezzare immediatamente per metterci in salvo. Temevamo anche che qualcuno, per interesse, ci denunciasse, poiché per ogni ebreo un delatore incassava 5000 lire.
Qualcuno della comunità scappò in campagna dicendo di essere sfollato per paura dei bombardamenti, qualcuno si nascose in casa di amici, qualche altro cercò di andare verso il Meridione sperando che Roma venisse presto liberata.
Gli Alleati erano sbarcati in Sicilia, salirono molto lentamente lo Stivale e si fermarono per molto tempo sulla linea gotica.
Chi scappò verso il Meridione dovette attraversare gran parte dell’Italia subendo gravi pericoli e non tutti arrivarono a Roma.
Dall’alto erano scesi i tedeschi da Bolzano occuparono tutta l’Alta Italia e liberarono Mussolini che, destituito, era stato sostituito dal governo Badoglio. Nei 45 giorni del governo Badoglio né il capo di governo, né il re Vittorio Emanuele III cancellarono le famigerate leggi razziali. Mussolini, di nuovo in carica, fondò la Repubblica Sociale Italiana che si adeguò ai metodi dei nazisti, con provvedimenti ancora più atroci contro gli ebrei e contro gli oppositori del regime.
L’Italia era quindi divisa in due parti.
Parecchi giovani ebrei, visto che si erano formate le Brigate Partigiane, andarono a combattere in montagna con l’obbiettivo di salvarsi come ebreo e di combattere per la libertà d’Italia contro i nazifascisti.
Nel ’44, i fascisti locali consigliarono di mettere i vecchi in Casa di Riposo ebraica assicurando che lì sarebbero stati al sicuro. Così molti vi avevano portato i nonni fidandosi delle assicurazioni fasciste.
Invece, nell’agosto deportarono tutti i vecchi, con il rabbino Ottolenghi cieco, qualcuno non era in grado di camminare perciò lo caricarono in una carriola da muratore.
Chi si era nascosto in manicomio sperando di passare per matto o chi tentò di farsi operare all’Ospedale Civile, fu portato via con lo stesso convoglio degli anziani della casa di riposo. Furono portati nella Risiera di San Sabba (Trieste), un campo di annientamento italiano, con il forno crematorio. Quelli che rimasero in vita furono trasferiti ad Auschwitz. Nessuno ritornò.
Noi, parte della famiglia, siamo riusciti a passare in Svizzera, perdemmo gli anni di scuola, perdemmo la casa.
I fascisti avevano requisito tutti i beni degli ebrei. Quando siamo tornati a Venezia, dopo la Liberazione, abbiamo trovato la nostra casa occupata da tredici persone.
Perdemmo parenti, amici, compagni di scuola. Il mio ritorno non fu felice.
La volontà fu quella di recuperare gli anni scolastici, di rimetterci a posto, di ritrovare il posto di lavoro di mio padre per riorganizzarci e per restituire i denari che gli amici ci avevano prestato per fuggire.
Avevo 17 anni e a 17 anni si ha tanta voglia di vivere.

La presenza degli Ebrei nella città insulare è documentata fin dall’inizio del dodicesimo secolo ma pare che loro insediamenti preesistessero a quella data. La legislazione della Repubblica di Venezia nei loro confronti fu per secoli quanto mai ambigua con un continuo alternarsi tra tolleranza e persecuzione.
Espulsi una prima volta dalla città nel 1298 gli Ebrei si trasferirono in Terraferma nella zona ad ovest di Mestre allora chiamata Pirago: nell’attuale denominazione di Piraghetto sono conservati l’antico nome della località ed il ricordo dell’insediamento ebraico.
Oltre, verso Chirignago c’è la via del Ghetto.
Dopo la riammissione in Venezia, nuova espulsione tra il 1391 ed il 1395 e poi ancora un susseguirsi di decreti di bando e di condotta cioè di autorizzazione al rientro ed alla permanenza in città a tempo determinato.
Non vi è dubbio che la Comunità ebraica in Terraferma oltre ad avere avuto notevole consistenza, ebbe anche importanza per l’economia del territorio.
Basti citare un caso. A Mestre si era ottenuta dal Governo della Repubblica l’autorizzazione alla creazione di un banco di pegni e la gestione fu affidata ad Ebrei.
Quando nel 1581 il Vescovo di Treviso richiamò i Mestrini perché non intrattenessero rapporti di nessun genere con Ebrei, quelli interposero ricorso al Governo per non essere privati di quella utilissima istituzione quale poteva essere un banco di pegni.
Poiché questo continuò a sussistere in Terraferma è facile immaginare quale sia stato l’esito del ricorso.


Il 19 luglio 1573 il Consiglio Civico presentava domanda al Governo della Repubblica perché fosse autorizzata in Mestre, come già avvenuto a Venezia, la istituzione di un banco di pegni.
L’autorizzazione fu concessa con ducale del 23 novembre 1573 e fra i Provveditori ed i fratelli ebrei Vivian e Jacob fu elaborato un progetto di contratto nel quale erano fissate le modalità di gestione del banco e l’interesse per le somme concesse contro pegno che non doveva superare il dieci per cento e questo soprattutto per agevolare la povera gente.
Avuta l’approvazione del contratto da parte del Consiglio Civico il 10 dicembre 1573, il banco cominciò l’attività l’anno successivo.
Non è dato di conoscere per quanto tempo questa istituzione abbia potuto funzionare.

Dal libro: Uomini, cose e fatti di Mestre di Luigi Brunello.