Per non dimenticare
Giornata della Memoria
di Alba Finzi.

Oltre che commemorare la Giornata della Memoria, noi qui in Italia, quest’anno, ricordiamo anche che 70 anni fa, tra il settembre e il novembre del 1938, furono promulgate le leggi razziali; e non può non venirci in mente che
il I° gennaio 2008 è stato l’anniversario della nostra Costituzione, che ha compiuto 60 anni.
Dieci anni di differenza...

 


 

 

 

Il complesso musicale Samarcanda.

 

 

Il prof. Stoppani con Alba Finzi.

 

 

 

 

 

 

...Una coincidenza. Ma anche un’occasione per meditare su quanto le disumane leggi fasciste del 1938 in difesa della razza fossero l’espressione della prepotenza di una dittatura che non permetteva a nessuno di manifestare il proprio pensiero.
La nostra Costituzione ha cancellato questa vergogna tutta italiana ed è una Carta fatta di buone norme; norme che fanno onore a un paese civile e che vanno difese - specie le prime 34 - da nuove prepotenze e da stravolgimenti antidemocratici. La Costituzione fu voluta da tutte le forze antifasciste, dai liberali ai monarchici, ai cattolici, ai socialisti, ai comunisti, che, dopo aver combattuto insieme la lotta Partigiana per liberare il Paese, tutti insieme vollero scriverla, per rendere stabili in Italia la libertà e la democrazia appena conquistate; perché non si ripetesse più, verso nessun cittadino, l’infamia del 1938.
E ora che abbiamo questo bene della libertà, a chi chiede aiuto per poter vivere e lavorare in un paese libero, cerchiamo di offrire le stesse opportunità. Negare a chi entra nel nostro Paese per vivere in pace, il raggiungimento di una parità di diritti, non dare aiuto a chi ne ha bisogno per superare gli ostacoli, è perdere il rispetto di noi stessi; è iniziare quella strada senza uscita che, con la scusa del: TU SEI DIVERSO, conduce senza che ce ne accorgiamo ai genocidi, conduce a nuove Auschwitz.
Lo scrittore ebreo statunitense Elie Wiesel, sopravvissuto ai lager nazisti, premio Nobel per la pace, dice: Secondo me il contrario dell’amore è l’indifferenza. Condivido in pieno questa affermazione; l’odio è comunque sempre un; interessamento che gravita attorno ad un problema; si sente, si vede, si può affrontare; l’indifferenza invece è quella che permette di coprire e rendere invisibili le tragedie anche più gravi. E’ importante ricordare; è importante
interessarsi e cercar di capire ciò che è stato,... tener viva la memoria... ecco perché siamo qui oggi. Nella mia testimonianza, parlerò dell’episodio che più mi ha traumatizzato quando, da un giorno per l’altro, dovetti sottostare alle leggi razziali (di cui parlavo) leggi promulgate dal governo fascista contro i cittadini italiani di origine ebraica (e non importava se religiosi o no, se battezzati anche da più generazioni, se misti, cioè con un genitore ebreo ed uno cristiano; - bastava un solo nonno ebreo su quattro, per essere dichiarati di razza ebraica).

L’inizio dell’applicazione delle leggi razziali fu il primo settembre del 1938. Poi i fascisti continuarono ad emetterne per tutto l’ottobre; (però, per creare tra la popolazione un pregiudizio che nell’Italia Unita non era mai esistito la propaganda antiebraica era cominciata molto tempo prima; sui giornali, alla radio, al cinema, attraverso libri e riviste). Queste leggi stabilivano, giorno dopo giorno, la cancellazione di tutti i nostri diritti di cittadini.
A poco a poco ci hanno costretto a vivere come individui di seconda categoria. Individui ai margini della vita sociale:

• cacciati dalle scuole di ogni ordine e grado,
• dai lavori pubblici e dagli impieghi di stato,
• dai divertimenti - teatri, caffè,... - il cartello appeso in molti bar diceva: Vietato l’accesso agli ebrei e ai cani-;
• non potevamo frequentare le spiagge del Lido,
• avere in casa una radio,
• possedere dei beni immobili,
• vere alle dipendenze lavoratori di razza ariana, ecc., ecc.

(Su tutti i miei documenti era stampigliato, su alcuni in grande di traverso, DI RAZZA EBRAICA e nel passaporto c’era anche di Nazionalità: APOLIDE.)

All’inizio sembrò che gli ebrei misti, alla cui categoria io appartenevo avendo la madre cattolica, non fossero discriminati e, al contrario degli altri ragazzi ebrei, (che furono tutti esclusi dalla scuola all’inizio dell’anno scolastico), nell’ottobre del 1938 io fui iscritta regolarmente alla mia classe.
Avevo allora quindici anni e quell’anno entravo nelle Medie Superiori, (corrispondente alla quinta ginnasio di oggi.)
Alla riapertura delle scuole mi ritrovai con le mie compagne e, come sempre, dopo le prime novità, un po’ alla volta le lezioni presero il loro ritmo quotidiano.
Dopo alcune settimane, un giorno venne in aula la nostra bidella dicendo che io dovevo andare in Presidenza. Non avevo pesi sulla coscienza, perciò mi sono avviata tranquilla e piena di curiosità.
Ricordo bene il lungo corridoio; ricordo la mia entrata nell’ufficio del Preside. Ricordo una persona che con molta naturalezza mi fa sedere; questa persona, che faceva viste di leggere un foglio, dopo attimi di attesa, alza il capo e mi dice che devo fare il pacco dei miei libri e che devo andarmene dalla scuola.
-Oggi?- ho chiesto.
- Sì, subito; sei di razza ebraica. E’ arrivato l’ordine anche per gli ebrei misti.-
- E domani?- è stata l’unica domanda che, mentre mi alzavo con la gola stretta, sono riuscita a fare.
- Per sempre. Sei allontanata da tutte le scuole del Regno. Per sempre-.

Sono rientrata in classe, ho detto poche parole a bassa voce alla mia amica e compagna di banco e mi sono messa a raccogliere tutte le mie cose sotto gli occhi curiosi del professore, (quello di Storia dell’Arte, se ricordo bene,) e delle mie compagne che in perfetto silenzio attendevano la mia uscita. Tutta rossa, accaldata, mi sentivo un’intrusa; mi sentivo una che non aveva più il suo posto in quel luogo.

Ricordo male il mio ritorno.

Ricordo che mentre facevo la strada, avevo vergogna; vergogna di tornare a casa e dire a mia madre e a mio padre che non potevo più andare a scuola; vergogna di non poter più stare tra i miei compagni, di non sentirmi più uguale a loro; vergogna di essere stata in presidenza e di aver ascoltato quelle parole: ...ora va in classe; ti fai la cartella e....ecc., ecc.
A casa, dopo aver parlato con i miei, i sentimenti andarono un po’ a posto e quel senso tremendo di estraneità, di squalifica totale non mi è più tornato. Ma il ricordo di quel giorno mi fa ancora arrossire di indignazione.
La questione scolastica si risolse per me e per tutti gli studenti ebrei con l’apertura in febbraio di una scuola media e superiore privata che raccoglieva in ogni classe tutti i tipi di indirizzi di studio (classico, scientifico, magistrale,ecc).
Insomma queste leggi furono molto restrittive ed ingiuste, una vera vergogna dello stato italiano; ma fino al 1943 la nostra vita non fu in pericolo. (Fummo emarginati, male accolti, rifiutati, dileggiati; ma non minacciati di offese fisiche.)
Il pericolo estremo da noi, in Italia, arrivò con i nazisti, i quali nel settembre del ’43, (dopo l’armistizio, cioè la pace separata, chiesta dal Re Vittorio Emanuele III agli alleati,) occuparono da nemici tutto il territorio nazionale fin oltre Roma e in ogni rappresaglia furono sempre aiutati dai loro complici, i fascisti della
neonata Repubblichina di Salò, proclamata pochi giorni prima sul lago di Garda.
Ecco alcuni dati che forse interesseranno perché si riferiscono a Venezia, cioè alla nostra zona:

-30 novembre 1943, arriva anche a Venezia l’ordine di arrestare tutti gli ebrei e di sequestrare i loro beni. (Nella nostra città c’erano allora circa 1500 veneziani di origine ebraica.)

-7/8 dicembre: la prima retata: vengono prelevate dalle loro abitazioni 90 persone.

Qualche mese dopo, a questi si aggiunsero i vecchi della Casa di Riposo; i malati prelevati dagli ospedali; e gli ebrei presi nella caccia all’uomo che fino alla fine della guerra (fino al febbraio del 1945) fu molto intensa da parte delle SS, dei fascisti e delle spie.

A Venezia ci furono in tutto 246 deportati (tra questi due lattanti e 14 bambini al di sotto dei dieci anni). Dei 246, ne tornarono solo 8.

Sapete già che la parola Shoah significa distruzione, parola molto più precisa di olocausto che significa sacrificio ed è sempre dedicato a un qualche dio. In realtà la parola più appropriata sarebbe sterminio.
Ma perché si dice che la Shoah fu un avvenimento unico? Perché fu un genocidio che Hitler sognò prima ancora di prendere il potere e poi subito dopo il 1933 pianificò a tavolino, insieme ai suoi esperti aiutanti, con estrema energia e con grande precisione burocratica. Voleva essere sicuro di distruggere tutto un popolo: capiva di aver perso la guerra, alla fine, ma continuava ad ordinare di uccidere e di distruggere le prove che denunciavano quanto i nazisti avevano fatto e stavano facendo in giro.
Dopo quell’8 settembre del 1943, noi non avevamo più messo piede a casa nostra.
Eravamo nascosti in casa di amici, dall’altra parte della città; ma capivamo che la situazione diventava sempre più pericolosa. Cosa fare?

Molti tentavano di scappare verso il sud, sperando di raggiungere le zone già in mano all’esercito alleato. Molti cercarono rifugio nei paesi di campagna o di montagna, in casolari messi a loro disposizione dalla popolazione. Altri, molti altri, cercarono di passare in Svizzera.
Noi, dopo un paio di tentativi mal riusciti per nasconderci, fummo tra questi ultimi. Mio Padre, mia sorella ed io, il 30 novembre del ’43, alla notizia che anche in Italia erano cominciati i rastrellamenti di ebrei, prendemmo il treno per Milano e iniziammo la nostra fuga e con l’aiuto di amici coraggiosi riuscimmo a passare la frontiera. (L’anno scorso ho parlato a lungo di questo pericoloso viaggio.)
Quest’anno invece voglio raccontarvi dei
due tentativi precedenti fatti nel corso dei tre mesi in cui restammo nascosti a Venezia, (tentativi che io chiamo: le false partenze) alla ricerca di un nascondiglio; tentativi purtroppo finiti in un fiasco solenne. Un racconto che può farvi capire quanto incerta fosse per tutti la possibilità di trovare un rifugio in quel momento.
Vi accennavo che dall’inizio di settembre a Venezia non abitavamo più in casa nostra. Ma questo non rassicurava mio Padre, attento alle mille voci contrastanti; in esse spesso trapelava un ottimismo che lui non condivideva.
-I tedeschi-si diceva- stanno perdendo la guerra; se i fascisti rialzano il capo, è per l’appoggio dei tedeschi; dunque tutto non può durare più di qualche giorno, di qualche mese, forse. Gli alleati stanno arrivando...-.
Mio Padre la pensava diversamente e, a fine di settembre, abbiamo cercato rifugio a Ferrara nella casa del nonno, padre di mia Madre. Il ricordo più vivo di quei giorni - che furono giorni caldi, ancora estivi - è la libertà di muovermi in quella città; è un Bar di Corso Giovecca, un bar che faceva ancora dei magnifici frullati alla frutta, con ottimi surrogati. Una goduria. La Città di mia Madre, in cui senza paura scorazzavo (tanto nessuno mi conosceva), quell’anno mi ha lasciato anche l’impressione ultima di giornate splendenti; di posti verdi e di ampi spazi con tanto sole. Una sensazione di sicurezza, insomma.
Passarono alcuni giorni; poi la notizia di una rappresaglia.
Durante la notte c’era stata un’azione partigiana e il mattino dopo l’arrivo improvviso di decine di tedeschi che, accompagnati da fascisti motorizzati, riempivano le strade come grandi insetti neri. Facevano rombare le macchine, percorrendo su e giù il centro a grande velocità. Noi, in poche ore, fummo pronti per un frettoloso ritorno a Venezia. Alla fine di ottobre, il secondo tentativo e siamo di nuovo alla stazione. Ricordo vivamente, spesso in sogno, la stazione di Venezia a quei tempi.
Questa volta eravamo anche molto carichi: avevamo dieci valige più una per i giochi, piena di giochi di società, di vecchi libri di scuola e di vecchi libri di letteratura varia.
Per la seconda volta cercavamo il rifugio sicuro. A mio Padre sembra di avere finalmente individuato la soluzione più idonea; un capannone da caccia e pesca, perso nelle valli della Laguna, in direzione di Chioggia. Amici fraterni avrebbero assicurato i collegamenti. Lì, certamente, nessuno avrebbe cercato ebrei nascosti.
Mentre stiamo per caricare i numerosi colli sul treno, la valigia-giochi, l’undicesima, si apre e tutto il contenuto si sparpaglia lungo il marciapiede.

La gente guarda curiosa.

Rossa e confusa cerco in fretta di liberare la strada e, aiutata da Lia, mia sorella, riempio freneticamente la valigia spalancata, mentre il capotreno sta avvicinandosi al nostro gruppo.
Mio Padre si informa sulla partenza. (I treni in quel periodo erano dominati da una grande precarietà e ci si poteva aspettare di tutto, specialmente nei tragitti brevi e secondari, proprio come questo che stavamo per affrontare: ritardi, sospensioni, spostamenti,...).
- Non so se partiamo.- risponde il ferroviere e aggiunge, credo di proposito.
- Oggi tutta la Laguna è percorsa da motovedette cariche di tedeschi. Dicono che ci siano partigiani nei capannoni, tra le barene.-
Mi alzo di scatto e sono senza fiato; guardo mio padre e mia madre. Nessuno parla. Lia continua a riempire la valigia, ma sicuramente ha sentito. Dopo pochi minuti, con aria indifferente, carichi dei nostri undici colli, ci avviamo verso l’uscita. Sembriamo appena arrivati. Infatti il nostro viaggio era già finito.

Per chiudere questo ricordo:

1938 - 1945, sette anni, sono tanti nella vita di un ragazzo. Sono un periodo infinito in cui ti hanno costretto a sentirti diverso. Ho raccontato di momenti amari, sgradevoli; ma non ho mai detto come si sono comportati quelli che ti sono stati compagni ed amici o insegnanti negli anni precedenti; quelli con cui hai riso, cantato, scherzato e studiato: purtroppo quando diventi un paria, la maggioranza dei compagni non ti riconosce, non risponde al tuo saluto e tu capisci che crei loro imbarazzo se sorridi quando li trovi per la strada.
Ti è mai successo di incontrare qualcuno con cui per anni hai condiviso scuola, vacanze, gite e pur fissandoti negli occhi, non ti vede? Persone che passano diritte come se tu fossi trasparente? A me è successo.
Numerose malegrazie in quegli anni mi furono rivolte da estranei, gente di cui non mi importava e che non stimavo.
Dai miei compagni, invece, mi sono sentita ferita; non me lo sarei mai aspettato.
Nello stesso tempo però non ho mai dimenticato che se siamo stati così fortunati da salvarci, è stato soprattutto perché abbiamo potuto contare su persone straordinarie e su amici sicuri. (Tra gli altri quella mia compagna di banco che mi fu sempre vicina e ancora, dopo settanta anni, è la mia più cara amica. Anni fa è venuta a portare la sua testimonianza in questa vostra scuola.)