a cura di Aldo Tommasella e Giancarlo Vianello Molti si saranno chiesti che cosa ci fanno tutti quei
pozzi a Venezia. Oggi vediamo l’acqua sgorgare dalle fontane o dai rubinetti
delle abitazioni, ma solo poco più di un secolo fa non era così.
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Ma ve lo immaginate come poteva essere la vita prima dell’introduzione dell’acquedotto
in Venezia, cosa che avvenne nel 1884? Vi potrebbe meravigliare che negli anni
cinquanta molte famiglie utilizzassero l’acqua delle fontane perchè non avevano
l'acqua corrente o perchè la pressione erogata non era sufficiente per raggiungere
i piani alti della città? Il rapporto dell’acqua dolce o potabile con Venezia,
è sempre stato difficile.
Venezia città d’acqua per antonomasia non ha delle proprie sorgenti d’acqua
potabile. Fin dalla sua fondazione, Venezia ha dovuto affrontare quest’esigenza
che, con l’andare degli anni, si faceva sempre più urgente: per il continuo
aumentare della popolazione, per le attività artigianali, per molte delle quali
era necessario l’utilizzo dell’acqua e, non ultimo, il prestigio che andava
assumendo la città nei confronti delle altre potenze straniere. Come affrontare
quindi questo bisogno impellente? Ricercare falde acquifere nel sottosuolo era
impresa praticamente impossibile data la conformazione del sottosuolo, l'acqua
salata che circonda la città e la mancanza di fiumi o sorgenti nelle immediate
vicinanze. La soluzione è stata trovata con la raccolta delle acque piovane.
Ma come immagazzinare quest’acqua e poterla utilizzare in futuro? Con la costruzione
di pozzi-cisterna per poterla attingere al bisogno. Il tutto regolato da leggi
ferree come si usava ai tempi della Serenissima Repubblica.
Sette secoli di buon governo! Negli anni cinquanta, si sentiva ancora dire,
forse in tono canzonatorio, che i foresti in visita alla città, portavano l'acqua
da bere, credendo fosse difficile reperirla e che la sua qualità fosse salata
di gusto e di prezzo. Ma nella città sull'acqua senz'acqua, a detta dei veneziani
del secolo scorso, l'acqua che si prelevava dai pozzi era così limpida fresca
e buona, da poter competere con quella delle sorgenti delle vicine Alpi.
Dal trattato di Alberto Rizzi, VERE DA POZZO DI VENEZIA, e da una lettera datata
1860 del Dr. Giuseppe Bianco ingegnere Capo del Municipio di Venezia, edito
dalla Stamperia di Venezia, per cercare di capire come venivano costruiti e
mantenuti i pozzi, abbiamo sintetizzato, a nostro parere, i punti più esplicativi,
che potessero adattarsi alle dimensioni del nostro giornale.
Vera da pozzo
Vera da pozzo,
termine ancora diffuso in città, si chiama così il pozzo rivestito da decorazioni
marmoree. Quante siano le vere rimaste a Venezia nessuno lo può affermare con
precisione non essendo stato svolto alcun censimento globale del genere. Da
sondaggi effettuati in zone campione e in centinaia di corti interne, senza
scostarsi troppo dalla realtà, si presume siano almeno 2500, cifra ragguardevole,
ma nel 1858 secondo l’Ufficio Tecnico Comunale, esistevano 6046 pozzi privati,
180 pubblici e 556 già interrati, aggiungendo poi le vere delle isole della
laguna e di Chioggia, la cifra dovrebbe arrivare alle 8000 unità, senza calcolare
i pozzi in mattoni, non molto numerosi, certamente andati distrutti. Purtroppo
questo patrimonio culturale artistico storico e ambientale, fu nel secolo scorso
e in quello attuale assai depauperato, essendo state trasportate in terraferma
e all'estero, vere non solo di uso privato ma anche pubblico. E l'esodo apparirà
tanto più massiccio considerando solo le vere private, oggetto di un attivissimo
commercio svoltosi fino al 1866 prevalentemente nell'ambito dell’Impero Austriaco
(da dove le opere raggiunsero la Germania e la Russia), mentre dopo l’unione
di Venezia all’Italia, verso altre parti dell’Europa e anche l’America. Le vere
pubbliche tuttora esistenti sono 256, cioè un decimo di quelle presunte. Le
vere da pozzo pubbliche, erano, durante la Repubblica Veneta quei pozzi curati
direttamente dallo Stato e a cui soprintendevano dal 1487 i Provveditori di
Comun affiancati in tali mansioni dai Provveditori alle acque e alla sanità.
A questi pozzi erano addetti i Piovani (Parroci) che su di essi effettuavano
un assiduo controllo, i capi-contrada che custodivano le chiavi e li aprivano
due volte al giorno al suono della “campana dei pozzi” e i Facchini degli stazii,
cioè stanzianti in punti fissi della città che accudivano alla loro pulizia.
I fondi per la loro costruzione e manutenzione provenivano dall’appalto dei
traghetti “da bezzo", cioè a pagamento, sul Canal Grande. Due erano le corporazioni
la cui attività era strettamente connessa coi pozzi, i pozzesi e gli acquaroli.
I primi addetti allo scavo o a dir meglio alla costruzione dei pozzi, vale a
dire della canna e del bacino di dotazione, era costituita da pochissime persone
formanti un sottogruppo (colonello) dell'arte dei mureri (muratori) . Gli iscritti
si dovevano costantemente tenere in contatto coi Provveditori di Comun ai quali
dovevano riferire anche sui lavori eseguiti per privati. L'altra arte, quella
degli acquaroli provvedeva al rifornimento d’acqua dolce durante i periodi di
siccità, operazione che veniva effettuata dai burchieri, iscritti alla loro
scuola, i quali con grosse barche (burchi) attrezzate allo scopo, attingevano
l’acqua presso Fusina da un canale del Brenta, appositamente scavato nel XVI
secolo e tenuto pulito, chiamato Seriola. Il gastaldo (persona di fiducia scelta
dalle Autorità di Governo con compiti di polizia) e i compagni degli acquaroli
tra l'altro, vigilavano affinché l’acqua dei pozzi pubblici non fosse utilizzata
da barbieri, tintori, trippieri, pellicciai e da chiunque la usasse per i propri
negozi, che l'acqua non venisse tolta a mastelli e che specialmente l’acqua
dei pozzi esclusivi per i poveri, quali quelli di S.Geremia e di S.Marcuola,
non fosse venduta per la strada a bigolo, come era chiamato il bastone ricurvo
che si bilanciava sulle spalle per trasportare due secchi appesi alle estremità.
L'approvvigionamento idrico fu particolarmente curato nei suoi molteplici aspetti,
per cui numerosissime erano le disposizioni della Repubblica relative ai pozzi
cittadini, specie quelli pubblici, da quella del 1325 che vietava di depositare
nei loro paraggi "immonditias et scopaturas" a quella per così dire di carattere
zoofilo quale l'obbligo nel 1793 di provvedere alla manutenzione delle vaschette
d'acqua ad uso dei cani e dei gatti sulle zoie cioè i basamenti delle vere.
Quando nel 1882-84 fu introdotto in città l’acquedotto, 120 pozzi vennero utilizzati
come serbatoi e sulle loro vere vennero applicate quelle cannelle di fontana
e quei meccanismi di pompaggio dei quali ancora esistono molti resti. Ora, solo
in campo S.Leonardo, in Piazza Galuppi a Burano e in quella di S.Nicolò al Lido
l'acqua continua a zampillare dalle grandi vere. I pozzi veneziani, il cui sistema
costruttivo fu esportato nei domini della Repubblica, specie in quelli “da mar”,
possono intendersi sia come cisterne sia come pozzi veri e propri, essendo essi
alimentati sì da acqua piovana ma filtrata attraverso la sabbia dei propri bacini,
riproducendo artificialmente quanto si verifica in natura nei litorali sabbiosi.
Le vere da pozzo assieme ai sigilli bucherati (gatoi in dialetto) erano costruite
sopra una base più alta rispetto la pavimentazione per impedire l’infiltrazione
d’acqua salata durante le acque alte così da occuparne talvolta tutta la superficie
come a S.Trovaso e a S.Beneto.
Quasi tutte le vere pubbliche, erano contrassegnate da uno o più leoni marciani
più o meno grandi e in vari casi anche dagli stemmi dei tre Provveditori di
Comun, ma tra il maggio e l'ottobre 1797, con la caduta della Repubblica Serenissima
furono accuratamente scalpellati, così da non lasciarne traccia. Poche vere
rimasero intatte, quelle situate nelle isole o in luoghi reconditi.
la costruzione
Per assicurare alla
popolazione veneziana quell’indispensabile elemento di vita, qual è l’acqua
potabile, furono studiati sistemi di pozzi-cisterna i quali erano alimentati
da acqua piovana o, nel caso di siccità, da acqua prelevata da un canale appositamente
scavato nel Brenta, e mantenuto pulito per l'uso specifico delle sue acque.
Individuato il luogo dove costruire il pozzo, determinata la quantità d’acqua
che si voleva raccogliere, valutato lo spazio disponibile, si destinava la forma
di superficie che poteva essere circolare, quadrata o poligonale. Si rapportava
la capacità, la superficie e la quantità media di pioggia che cadeva in un anno,
da tutti questi dati si potevano rilevare le dimensioni dello scavo.
Lo scavo difficilmente superava i 6 metri di profondità, all'incirca i 5 metri
sotto il livello dell'alta marea. La base inferiore dello scavo doveva essere
più piccola della superiore per evitare crolli in fase di costruzione, e il
fondo della vasca a forma di cono o di piramide rovesciata, per agevolare l’affluenza
dell’acqua nella canna in caso di scarsità. Per il rivestimento del fondo e
delle pareti si adoperava argilla ben depurata e priva di calce. I lavoratori
destinati a questo delicato lavoro, erano scelti tra operai esperti in queste
costruzioni e dovevano avere qualità morali ineccepibili. L’argilla era raccolta
con le due mani, era ben manipolata e formatane una palla veniva lanciata con
forza sulla parete da ricoprire, quest’operazione era ripetuta fino a raggiungere
lo spessore di copertura calcolato. La copertura iniziava dal fondo sul quale
a lavoro ultimato, venivano poste delle tavole per proseguire la copertura delle
pareti, senza danneggiare l’argilla già posata.
A mano a mano che la copertura saliva, si riempiva la parte sottostante con
la sabbia o ghiaia destinata alla depurazione dell’acqua. Quest’operazione oltre
a permettere il proseguimento dei lavori a strati sempre più alti, consentiva,
bagnando costantemente la sabbia, il mantenimento della copertura già posata
evitandone la screpolatura. Contemporaneamente, al centro dello scavo, si provvedeva
alla costruzione della canna, la cui misura variava da uno a due metri di diametro.
Alla sua base veniva posta una lastra di pietra viva, appoggiata sull’argilla
del fondo, cercando uno stabile assestamento orizzontale. La canna veniva costruita
direttamente sulla lastra di pietra, con mattoni speciali, (pozzali) uniti tra
loro con cemento di argilla e sabbia, tenendo presente che l’unione non dove-va
impedire la filtrazione dell’acqua. Si facevano prove per vedere con che velocità
avveniva il passaggio dell’acqua, dalla sabbia alla canna. Se il passaggio era
troppo veloce, la filtrazione finiva col diluire il cemento e inquinare l’acqua
raccolta nella canna; una velocità troppo piccola, impediva il riempimento della
canna nel tempo ne-cessario per attingerne una certa quantità. Questo era un
processo molto delicato, che solo la molta esperienza poteva risolvere. Il rivestimento
delle pareti e della canna si limitava a circa ¾ della costruzione, poi si proseguiva,
fino al livello del pavimento, con cemento di calce e sabbia, per rendere più
solida la parte superiore, più soggetta ad usura per il passaggio dei secchi
per attingere l’acqua. Giunti al limite della costruzione della canna, si sospendeva
il riempimento con sabbia della cisterna, per poter dar luogo alla costruzione
dei cassoni.
Veniva così chiamato un cunicolo in mattoni, che girava attorno alla canna,
costruito molto vicino alle pareti della cisterna, cosicchè l’acqua potesse
attraversare molta sabbia prima di riversarsi nella canna.
Prima della costruzione del cunicolo, si versava dell’acqua, sulla sabbia o
ghiaia di riempimento, in maniera che si assestasse ed avesse una base consistente.
Le misure del cunicolo, venivano ricavate dalle dimensioni di superficie e della
massima quantità di pioggia che poteva cadere in un giorno. Compiuti i cassoni
si colmava con la sabbia fino alla superficie.
La sponda del pozzo, che serviva da corona e da parapetto della canna, poteva
essere marmorea ferrea o di altro materiale. I veneziani profondevano denari,
per rendere bella la sponda della loro cisterna. Il coperchio era fatto in ferro
o in lamine variamente intrecciate con forme artistiche. Il pavimento che doveva
coprire la vasca era fatto con materiali resistenti alle intemperie e disposto
a falde inclinate degradanti verso l'intersezione con i cassoni. Questa inclinazione
convogliava l’acqua verso i cassoni, la cui apertura di superficie, era protetta
da "gatoi", per evitare che pagliuzze e altre cose galleggianti, potessero introdursi
nei cassoni.
Siccome non tutto poteva essere fermato in superficie, ogni mese bisognava alzare
la lastra di pietra e far introdurre un artiere, che a mano raccoglieva quelle
materie che per la loro esiguità si erano depositate sul fondo sabbioso del
cassone. Ultimata la costruzione della cisterna, era però necessario depurarla,
perciò si riempiva e si vuotava, finchè l’acqua risultava pura e potabile. Nei
periodi estivi o di scarsa piovosità, la cisterna doveva essere costantemente
intrisa d’acqua, per evitare lo screpolamento dello strato d'argilla, che avrebbe
rovinato il manufatto.
Nelle corti private, o comunque dove lo spazio non permetteva la raccolta dell’acqua
necessaria per alimentare la cisterna, venivano collegate delle tubazioni che
partivano dai tetti per convogliarla ai cassoni.
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