Fulvio Tomizza era un nostro caro amico. Siamo andati a trovarlo un paio di volte nella sua Materada e sempre siamo stati accolti con grande gentilezza e generosità. Con lui abbiamo contratto un debito che non riusciremo mai a saldare; ora che non c'è più, lo ricordiamo a modo nostro, come possiamo. |
di Mila di Francesco
Nel febbraio del 1984 la mia famiglia ebbe il piacere di
ricevere a pranzo Fulvio Tomizza.
Un invito motivato dalla somiglianza di origine con mia madre, slovena, e quindi
proveniente, come Tomizza, dallo Stato che allora si chiamava Jugoslavjia.
Io conoscevo lo scrittore per avere letto i suoi romanzi più famosi, "La
città di Miriam" e "La miglior vita".
Lascio immaginare l’emozione e l’attesa per un ospite così importante; mia
madre preparò un menù tipico del suo paese, i likrofi (quasi dei tortellini),
Peèenka (vitello arrosto), ed infine, a puntualizzare l’attitudine austriaca
della Slovenia, Štrudel di mele (quello con la pasta così sottile da
permettere la lettura, in trasparenza, di una lettera d’amore).
Prese dall’armadio la sua migliore tovaglia, decorata dal paziente lavoro di
mia nonna al tombolo con i "soffici pizzi d’Idria"*.
In casa ci sentivamo eccitati ed anche un po’ preoccupati; di cosa avremmo
parlato con lo scrittore, di sola letteratura? Sarebbe stato un pranzo noioso?
Suonò il campanello e venne su per le scale il gruppo di persone così atteso;
arrivato davanti alla porta di casa l’ospite illustre si rivolse a mia madre
che lo aveva accolto e, stringendole la mano, disse semplicemente "Tomizza".
Questo episodio mi è rimasto scolpito nella memoria ed è significativo del
carattere della persona, schivo e riservato, lontano dal presenzialismo che
contraddistingue tanti intellettuali, senza la pretesa di apparire diverso dal
suo essere.
Durante il pranzo il tempo trascorse piacevolmente, senza silenzi imbarazzanti o
monologhi forzati; il nostro ospite ci parlò della sua famiglia e del suo
lavoro – era venuto a Venezia per fare delle ricerche all’Archivio di Stato,
necessarie al romanzo che stava scrivendo; mi spiegò l’etimologia del mio
nome di origine slava; espose con serenità la propria considerazione delle
vicende che riguardavano la sua terra ("la mia Istria" come egli
ripete nei suoi scritti), senza rancori né risentimenti.
Le conseguenze dell’annessione dell’Istria alla Jugoslavjia sono un tema
ricorrente nell’opera letteraria di Tomizza, che è in buona parte
autobiografica; i personaggi, i luoghi, i ricordi, le emozioni circolano in
molti romanzi, anche sotto la forma di narrazione onirica.
Rispetto a quelle vicende egli non si scaglia mai a condannare, si fa piuttosto
portavoce delle sofferenze della gente; per lui la storia è quella vissuta
quotidianamente e molto spesso ha attinto al patrimonio prezioso di fatti,
apparentemente insignificanti, di un piccolo paese, il suo.
Anche se in più occasioni l’interesse dello scrittore si è rivolto a eventi
o personaggi "importanti" e più lontani nel tempo, traspare sempre l’intensa
partecipazione alle vicende di chi non è mai stato citato dai libri di storia.
Con un linguaggio che sembra quello di ognuno di noi, ma dal quale emerge il
lavoro di fine cesellatore della parola, che evoca atmosfere, pulsioni, momenti
di ribellione, con un continuo scambio tra la cronaca e l’invenzione, la
realtà e la fantasia.
E chissà se, come si domanda Tomizza, "è più ricca d’immaginazione la
tanto imprevedibile realtà del vivere o invece la fantasia umana?"*
*Citazioni tratte, rispettivamente, da "Gli sposi di via
Rossetti" e "L’abate Roys e il fatto innominabile".
di Fernanda Dardilli |
Dedico un pensiero alla memoria dello scrittore Fulvio
Tomizza che ho conosciuto personalmente.
Era l’anno scolastico 1994-95 e frequentavo le 150 ore per il diploma di
III media alla Giulio Cesare di Mestre. Oltre alle materie tradizionali si
svolgono altre attività culturali come visite ai musei, incontri con
poeti e scrittori; in quell’ambito venne programmato un incontro con lo
scrittore F. Tomizza, per preparare il quale leggemmo un’antologia dei
suoi racconti. Mi colpì in particolare una frase tratta dal racconto
"Il fucile di papà", la cito: "Mi resi conto di non aver
voluto sparare alle stelle."
Da quest’espressione dedussi nel mio pensiero un ritratto preciso dell’essere
che ancora non conoscevo, lo immaginai un uomo ricco di poesia e di
personalità.
A marzo Tomizza viene a Mestre invitato dagli studenti delle superiori per
parlare delle vicende attuali della Iugoslavia. Colgo l’occasione e vado
a conoscere di persona l’uomo che avevo immaginato nella mente. Parla
con voce calma e suadente. Ricorda le sue origini e la vita della sua
amata Istria, una terra culturalmente e psicologicamente a cavallo fra
Italia e Iugoslavia.
A maggio mi reco con la mia classe a Materada (Croazia) dove è nato;
racconta come nasce uno "scrittore di confine" e perché.
Mi colpisce la sua modesta casa in mezzo al verde, i colori dei balconi,
il ciliegio dai frutti maturi, la fiasca di buon vino e la bottiglia di
grappa che offre ai presenti.
Tutto quel tacere di cose e colori parlano di lui, uomo semplice.
Passeggiamo in una stradina tortuosa fiancheggiata dall’erba alta, mi fa
notare gli asparagi selvatici che ai miei occhi sono insignificanti mentre
per lui, nella sua modestia e semplicità, sono preziosi frutti della
terra. Li raccoglie per me e io li porto a casa come un grande dono.
Dalle sue parole e dai suoi scritti ho capito ancora di più quanto
possano essere belle anche le cose più semplici e quanto sia importante
accettare un amore diverso.
Nel mio pensiero per lui la speranza di poter perseguire le sue orme.
A frugare nella coscienza si trova sempre di aver trasgredito qualcosa.