Ewa Sidorowicz Tucci nel refettorio del
Convento dei P.P. della
Resurrezione di Cracovia davanti all’affresco raffigurante l’Ultima
Cena (particolare del Cristo)
La tavola di copertina del libro "Chiarastella,
Desiderio e l’incantesimo della Luna", illustrato
da Ewa Sidorowicz Tucci su
testo di Roberta Fabris Storto |
Ho conosciuto Ewa Sidorowicz
Tucci alcuni anni fa: l’attrazione comune per l’ambra ci aveva fatto
incontrare, una certa affinità e gli interessi artistici ci hanno
permesso di approfondire la conoscenza. Ewa Sidorowicz Tucci è nata in
Polonia a Katowice, poco lontano da Cracovia, presso la cui Accademia di
Belle Arti si è laureata. Molti amici in Polonia. Molti amici in Italia.
Un marito italiano. Questa la traccia biografica di un’artista di grande
sensibilità e ricchezza interiore, unite ad abilità, cultura, capacità
creativa; doti che si esprimono in diversi settori dell’arte: dall’affresco
alla grafica, dall’illustrazione alla fotografia.
Non credo sia opportuno considerare separatamente i generi nei quali Ewa
Sidorowicz si esprime. Sono convinta infatti che rappresentino un tutto
che ci permette di approfondire meglio la conoscenza della sua complessa
personalità.
Umana ed intuitiva nei ritratti fotografici dedicati agli amici, precisa
per disegno e tecnica nelle belle illustrazioni e nei sogni tristi che Ewa
chiama favole, concettuale e simbolica nella grafica, religiosa e mistica
negli affreschi, Ewa Sidorowicz costruisce un itinerario unitario.
Al nostro occhio il compito di cogliere gli elementi unificanti e le
tracce di pensiero che emergono dalle immagini: come esempio i lacci alle
mani del clown protagonista della favola "Chiarastella, Desiderio e l’incantesimo
della luna" e le mani legate del Cristo dei monumentali affreschi
facenti parte del "Ciclo della Via Crucis" nella cattedrale di
Katowice (opera del ‘92 realizzata assieme alla pittrice polacca Joanna
Piech); oppure l’espressione di certi sguardi quasi iconici, fissi ad
osservare una realtà che stupisce ed atterrisce nello stesso tempo, che
attira e respinge.
Per conoscere l’arte di Ewa Sidorowicz è opportuno accostarsi ai suoi
lavori senza fretta, senza ansia di capire a tutti i costi, senza quella
morbosa curiosità che accompagna talvolta noi spettatori di fronte alle
opere degli artisti, alle quali approdiamo carichi di conoscenze spesso
frenanti o appesantiti da un certo gusto di penetrare e possedere il loro
privato.
Credo si debbano guardare le opere di Ewa Sidorowicz, ma non solo le sue,
rinunciando ad interrogarsi sui perché, sui motivi, sul senso, per
abbandonarsi con disponibilità all’ascolto; allora le opere stesse
cominciano a dialogare con noi dapprima sommessamente e poi, piano piano,
rivelandoci la grande carica emozionale che racchiudono.
Rimarremo allora turbati per la risonanza che determinano, sconcertati di
fronte a certe delicate malinconie, sopraffatti dalle inquietudini cui
seguono teneri ripiegamenti e improvvise rinascite, coinvolti dalle
sofferenze narrate senza nascondimenti o inutili maschere.
La vita non emerge come realtà rassicurante dalle opere di Ewa: è
piuttosto una ricerca di verità anche scomode sulle quali l’artista
medita e nelle quali rimane coinvolto anche lo spettatore. Dipende da noi
dunque accettare di approfondire il dialogo che ci viene proposto ed
oltrepassare il malessere che talvolta alcune immagini forti ci
determinano: sto pensando alle incisioni graffianti del Ciclo del Teatro e
a certe favole tristi dense di solitudine, ma anche ai recenti dipinti
destinati alla chiesetta di Ca’ Vio.
Un filo dunque collega tutta la produzione di Ewa Sidorowicz Tucci.
Potremmo chiamarlo il filo della verità del sentire. In tutti i generi
infatti emerge il senso della vita che l’artista indaga e rincorre: la
necessità di contenere la passione, di prevedere il caso e di gestire gli
attimi; e poi, l’attesa, la sospensione del giudizio, la poesia del
gesto, il grido frenato che rivela il silenzio. |