Interno della chiesa di
S. Irene (Atene)
Cristo Pantocrator,su
cartone di Blasios Tsotsonis
Pavone, da Aquileia
Particolare della Battaglia
di Isso, con il ritratto di
Alessandro Magno
Battaglia di Isso,
mosaico pavimentale del II sec. a.C.
Testa virile, detta di
Costantino, Aquileia.
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La parola
"mosaico" deriva da "musa" (le Muse sono nella
mitologia greca le nove figlie di Giove protettrici delle attività
intellettuali ed artistiche), passando attraverso il sostantivo latino
"musaeum", che significa "luogo sacro alle Muse" e
quindi alle Arti: una lontana e nobile discendenza per un vocabolo che
designa un’arte particolarissima di antichissime origini.
Per molti secoli il mosaico venne impiegato quasi esclusivamente per il
rivestimento di grandi superfici: pavimenti, cupole, soffitti e pareti, in
particolare all’interno di edifici sacri. In questo si distinsero
particolarmente i bizantini mentre durante questo periodo, in Occidente,
più limitati sono gli esempi di arte musiva.
Nel Rinascimento iniziò a prendere sempre più piede l’idea del mosaico
come mera imitazione della pittura e da qui iniziò il periodo di
decadenza di quest’arte.
Dall’Ottocento il mosaico iniziò a tornare, dapprima timidamente, alla
ribalta e dopo il periodo del revival storicistico (la fase neogotica),
questa forma artistica riconquistò un posto nell’arte contemporanea
grazie al rinnovato interesse che manifestarono verso il mosaico alcuni
importanti artisti, come Gustav Klimt, Gino Severini, Antoni Gaudì ed
altri.
Nel IV sec. d.C. il Cristianesimo inizia ad acquistare potere e
visibilità e trova nel mosaico una forma artistica a lui congeniale per
la decorazione dei suoi edifici di culto.
Inizia così un nuovo momento d’oro dell’arte musiva, di cui
principale opera, in questa fase, possono essere considerati i mosaici
della Basilica di Aquileia, che comunque aveva già dato luminose prove
della maestria dei suoi artigiani in quest’arte nello splendido pannello
musivo raffigurante il Ratto di Europa, risalente al 100 circa e
ora conservato presso il Museo Archeologico di Aquileia.
Ad Aquileia abbiamo ricchissime testimonianze di mosaici pavimentali,
spazianti su molti degli elementi decorativi più usati dell’antichità:
elementi geo-metrici e fitomorfi, rappresentazioni di animali, di uomini,
scene mitologiche, con una scelta coloristica che spazia dal monocromo ai
vivaci inserti naturalistici pavimentali dalle intense variazioni di
colore.
I mosaici di fattura aquileiese risultano diffusi ovunque in regione: ad
Aquileia, a Grado, a Zuglio, a Concordia Sagittaria; nelle città, ma
anche nei villaggi più sperduti, nelle basiliche e nelle ville
aristocratiche; spaziando tra i più diversi temi figurativi, siano essi
sacri, profani o semplicemente decorativi. Altre opere relative al periodo
paleocristiano sono a Roma, nel Mausoleo di Santa Costanza, con le sue
decorazioni ancora fortemente impregnate di gusto ellenistico, molto
ariose, naturalistiche e nel mosaico dell’abside di Santa Pudenziana,
dove già si evidenzia come l‘iconografia cristiana elabora l’arte
naturalistica e illusionistica del periodo imperiale romano, portandola
verso forme più astratte e stereotipate, che saranno poi tipiche dell’arte
bizantina.
Al V sec. risalgono i mosaici della basilica di S. Maria Maggiore, in
Roma, che evidenziano la tendenza alla dissoluzione delle forme negli
sfondi abbaglianti, un modo per esaltare il carattere soprannaturale delle
scene sacre che vi sono rappresentate, mentre ormai ci si avvia ad entrare
nel periodo cosiddetto "bizantino" dell’arte musiva.
Il periodo
della dacadenza
Eccettuando qualche
sporadico ritorno di interesse da parte di artisti del calibro di Mantegna,
Tiziano, Tintoretto e Raffaello, il mosaico, dopo i fasti del perio-do
paleocristiano e bizantino, conosce un lungo periodo di decadenza in cui
la tendenza involutiva si spinge fino a relegare la tecnica musiva a mero
strumento di conservazione imperitura dei capolavori pittorici. Anche se
naturalmente questo processo non avviene in maniera subitanea, ma conosce
svariati alti e bassi.
Già agli inizi del Quattrocento a Venezia, il più vasto e duraturo
cantiere di mosaici di gusto bizantino, non si riesce a trovare un maestro
mosaicista per riparare i danni apportati alla Basilica di S. Marco da un
incendio. Qualche anno prima Cennino Cennini, nel suo Libro dell’arte,
non sapeva cosa fosse il mosaico e lo confondeva con delle imitazioni a
tempera usate in Toscana.
Comunque la crisi sembra venir superata, anche grazie ad artisti come
Lorenzo Ghiberti, Paolo Uccello, Andrea del Castagno, ma è ormai
irrimediabilmente mutato il concetto che stava alla base di quest’arte.
Non più mezzo privilegiato per esprimere un determinato concetto di
santità o di gloria (pensiamo ai mosaici di S. Vitale con la
rappresentazione degli imperatori Teodora e Giustiniano), o per esprimere
la ricchezza di luce e di colore della natura (come possiamo vedere a
Galla Placidia), si cerca di piegare il mosaico alle nuove tendenze di
rappresentazione spaziale e prospettica, considerandolo un’ancella della
pittura, con l’unico privilegio della maggior durata.
Nel XVI sec. il friulano Giovanni da Udine (1487-1561) viene chiamato a
Roma per procedere al restauro dei mosaici antichi di S.Pietro. Una
testimonianza di quanto è presente, alla committenza dell’epoca, la
peculiare conoscenza delle tecniche musive in regione, ma anche di quanto
è ormai in decadenza l’arte del mosaico proprio in una delle città che
ne ospita i migliori esempi; addirittura per un certo periodo Roma si
trova costretta ad importare maestri musivari da Venezia.
Nel Cinquecento molto usata è la tecnica del finto mosaico d’oro, per
cui al posto delle costose opere musive in foglia d’oro, vengono
commissionati trompe l’oeil che mimano questa preziosa tecnica.
Il mosaico è sempre più quello che Vasari definisce "la vera
pittura per l’eternità" e questa connessione con la pittura lo
relegherà in una nicchia secondaria per molti secoli.
La più grande opera musiva mai tentata è la copertura della cupola della
Basilica di S. Pietro in Vaticano, che è anche l’ultima grande opera di
questa tecnica. Ormai a Firenze, culla del Rinascimento, si collezionano
piccoli mosaici bizantini, essendosi quasi interamente perduta la grande
capacità tecnica che aveva portato all’esecuzione degli splendidi
mosaici del Battistero. Il mosaico diviene così una preziosa tecnica per
miniature.
Anche il mosaico pavimentale conosce un periodo di decadenza e torna ad
essere un mosaico monocromatico, non più in tessere, ma in ciottoli;
nelle piccole isole greche, come nelle splendide ville dell’aristocrazia
italiana rinascimentale.
Un nuovo interesse per il mosaico si ritrova nel Settecento, in virtù
anche delle nuove tecniche di fabbricazione delle tessere in smalto
vetroso, ma non cambia l’atteggiamento di piatta imitazione della
pittura, che anzi si accentua maggiormente raggiungendo risultati
pregia-tissimi per finezza tecnica e capacità imitativa, ma di cui si
intravede un solo motivo per preferirle alle pitture: la maggior durata.
A Roma viene creato proprio nel Settecento lo Studio vaticano del mosaico,
che opera tuttora, con lo specifico scopo di rivestire di mosaici l’interno
di S. Pietro. Questo favorisce la nascita di una scuola in un ambiente che
tramandava il proprio sapere da maestro a discepolo, subendo quindi le
periodiche perdite di conoscenze che abbiamo visto. Proprio a Venezia,
anzi, dopo la terribile peste del 1630, che fece più di 46.000 morti, non
si riescono a trovare degli abili artisti mosaicisti e ancora alla metà
del Settecento le opere in mosaico sono affidate ad un artista romano.
Il mosaico in questo periodo si slega da una committenza essenzialmente
religiosa e risulta essere apprezzato anche da nobili e teste coronate.
Cresce, in virtù del sempre più perfetto mimetismo con la pittura, l’apprezzamento
nelle classi più abbienti e questo gusto si diffonde anche nei paesi
oltralpe.
La possibilità, per il mosaico, di eguagliare la pittura è
sostanzialmente legata alla possibilità di avere a disposizione una gamma
cromatica paragonabile a quella del pittore, cosa che nel Settecento,
grazie appunto alla creazione di nuove tecniche, risulta possibile.
Si diffondono anche, oltre a nuove tecnologie nella resa del colore, anche
nuove tecniche di costruzione della superficie mosaicata, tutte di
creazione romana. Di grande moda diventano allora le opere in mosaico
minuto, una tecnica che permetteva ottimi risultati anche su superfici
molto piccole, e che viene applicata per la crea-zione di oggetti d’uso
personale o d’arredamento, come tabac-chiere, gioielli, portaprofumi,
vasi, quadretti, piani di tavolo, ecc.
Questa produzione di lusso diviene di grande moda presso papi, re,
diplomatici e ricchi viaggiatori e Roma conosce un periodo di grande
fortuna nelle esportazioni di mosaico minuto, i cui soggetti si
richiamavano spesso alle tematiche antiche che si cominciavano allora a
riscoprire grazie agli scavi di Ercolano e Pompei.
Le
tecniche
Il mosaico può essere
essenzialmente definito come una tecnica artistica che usa piccoli
frammenti, tagliati in maniera più o meno regolare, di materiali
eterogenei (marmi, terrecotte, smalti, vetro) per la composizione di
superfici piane o curve, che possono essere pavimentazioni, soffitti,
pareti, colonne, quadri, tavoli.
Questi frammenti, chiamati "abakiskoi" dai Greci e "tesserae",
o "abaculi" dai Romani, vengono opportunamente sagomati e poi
applicati, secondo un preciso disegno ornamentale, su un materiale di base
cementante.
Le tecniche antiche risultano essere simili fin dalle loro origini, con la
sola variante, da parte dei mosaicisti Romani, dell’applicazione delle
tessere su una base di stucco.
Seguendo la terminologia antica, il mosaico viene suddiviso in una serie
di tipologie. L’opus tessellatum è il mosaico formato da piccoli
tasselli di forma approssimativamente quadrangolare, piuttosto uniformi,
ottenuti dalla segmentazione del materiale per mezzo di un martello
chiamato "martellina" su un ceppo dotato al centro di un cuneo
sporgente in metallo.
L’opus sectile usa invece lastre di marmo o pietra colorate,
ritagliate secondo i contorni delle figure o composte in figurazioni
geometriche. Il termine venne usato per la prima volta da Varrone nel I
sec. a.C. e Plinio spiegò chiaramente che gli elementi che concorrono
alla formazione delle figure in questo tipo di mosaico vengono ottenuti
per segamento. Questi elementi sono inoltre usualmente di dimensioni
maggiori delle tessere usate per l’opus tessellatum.
Un altro tipo di tecnica ricorrente era il cosiddetto opus alexandrinum,
formato da piccoli ed irregolari elementi lapidei, solitamente bianchi e
neri, posati su un fondo monocromo. Anticamente il processo di creazione
del mosaico avveniva in tre fasi: nella prima il pictor imaginarius
eseguiva il bozzetto dell’opera, dopo di che interveniva il parietarius,
incaricato di riportare il disegno sul fondo predisposto. Infine toccava
al musivarius posare le tessere sul fondo collante.
Le tessere in vetro con foglia d’oro vengono utilizzate a partire dal
III sec. d.C., se si eccettua il caso della Domus Aurea di Nerone, del I
sec. a.C. Questa tecnica avrà grande successo e verrà usata in
particolare dagli artisti bizantini.
Attualmente i materiali usati per il mosaico si presentano in vari
formati: dalla tesserina preformata dimensione 2x2 cm, tipica del mosaico
industriale, alle "pizze" di materiale vetroso, solitamente di
alta o altissima qualità, come il rinomato "nero di cina", un
nero profondo e lucido di grande effetto. Queste "pizze"
verranno poi spezzate in piccoli pezzi che il maestro mosaicista sagomerà
secondo il suo gusto e le sue esigenze attraverso i due strumenti
fondamentali del mestiere, il ceppo in legno con il cuneo in metallo
sporgente al centro e la martellina.
Molto pregiate sono anche le tessere in foglia d’oro, ormai prodotte in
un numero limitatissimo di laboratori.
Esistono dei "limiti" nell’uso di questo mezzo espressivo che
possono in realtà considerarsi delle peculiarità dell’arte musiva.
Innanzitutto il limite del colore: il mosaicista ha a disposizione una
gamma limitata di colori, assolutamente non paragonabile alle infinite
sfumature in possesso del pittore e questo impone tutta una serie di
astuzie, di giochi, basati sulla mescolanza delle tessere, ma anche sull’incidenza
della luce. Infatti la disposizione del mosaico varia come inclinazione, a
seconda di quale effetto si intenda creare attraverso l’incidenza della
luce sulle tessere.
In secondo luogo vi sono da considerare i limiti intrinseci del mezzo, per
cui si impone la ricerca a tutta una serie di soluzioni da applicare ai
problemi dati dalla resa della terza dimensione in maniera omogenea: per
esempio come fare per rendere le morbidezze e le curve di un volto, o di
una figura intera.
E naturalmente ora si comprende come non abbia alcun senso chiedere al
mosaico di imitare pedissequamente la forma pittorica, ma come esso abbia
sue particolari potenzialità, che derivano anche ed in primo luogo dalle
peculiari soluzioni escogitate dai mosaicisti ai problemi che sono stati
evidenziati sopra. Si impone quindi una stretta collaborazione tra artisti
(pittori, designer, architetti) e maestri mosaicisti, quando queste due
figure non coincidano, per far emergere in modo completo le
caratteristiche del mosaico e perché l’opera d’arte che si serve di
queste caratteristiche possa esprimere tutto il suo carico significante.
Per quel che riguarda in modo più stretto le tecniche, vi sono vari
metodi di posa del mosaico, che spesso sono patrimonio di una specifica
area geografica. Ci soffermeremo sul metodo indiretto e su quello diretto.
Metodo
indiretto
posa a
rovescio su carta
Questo metodo venne messo
a punto per la prima volta dal friulano Gian Domenico Facchina nella
seconda metà dell’800. Questa innovazione si diffuse presto in tutto il
mondo e giunsero commissioni da ogni Paese.
A tutt’oggi questa modalità tecnica è una delle principali usate
presso la Scuola Mosaicisti del Friuli di Spilimbergo.
Nella lavorazione a rovescio su carta le tessere vengono incollate a
rovescio su un supporto cartaceo usando una colla idrosolubile, ottenuta,
secondo la tradizione, con farina di frumento la cui lenta essiccazione
permette al mosaicista ripensamenti e correzioni nella collocazione delle
tessere.
Il disegno preparatorio, composto dalle linee principali e dai
chiaroscuri, deve invertire l’immagine da destra a sinistra rispetto al
bozzetto, mentre sul retro vengono tracciati gli assi e i contrassegni che
poi serviranno da guida per ricomporre le varie sezioni in un’unica
opera musiva.
Una volta intonacato con malta grezza e distribuito uno strato omogeneo di
circa due centimetri di malta sulla superficie da rivestire, sulle tessere
si stende con la cazzuola la "buiacca", cioè un composto di
cemento, acqua e calce che forma una pasta omogenea atta a penetrare nelle
fughe del mosaico, spianando e lisciando bene, quindi si procede alla
messa in opera del mosaico facendolo aderire alla superficie battendolo
con un frattazzo. L’ultima operazione consiste nel bagnare il supporto
cartaceo in modo che questo possa venire strappato via, e nella pulitura
degli interstizi dalla colla avanzata tramite una spazzola, in modo da
mettere a nudo il cemento sottostante. Tale tecnica permette di realizzare
in laboratorio singoli pezzi fino ad una dimensione di circa 50 o 60
centimetri di lato, che poi verranno a comporre mosaici di grande
dimensione.
Questo tipo di tecnica si adatta facilmente a ogni tipo di superficie,
anche a quelle concave o convesse, quali volte o colonne ed è quindi di
grande ver-satilità d’impiego. Lo svantaggio sta nella perdita di
espressione, in quanto il procedimento comporta il totale appiattimento e
livellamento delle tessere, che quindi non giocano più liberamente con la
luce.
Metodo
diretto - mosaico su rete in fibra di vetro
La
lavorazione diretta su rete in fibra di vetro avviene secondo il seguente
procedimento: il disegno complessivo, realizzato a dritto su carta, viene
sezionato in settori di minore formato, generalmente squadrati, per ognuno
dei quali si ritaglia una sagoma di misura corrispondente nella rete
stessa e in una pellicola di nylon trasparente. Fra la carta e la rete si
inserisce il nylon al fine di lasciar trasparire il disegno e di impedire
contemporaneamente al col-lante di aderire al disegno stesso. Una volta
steso il collante, dello spessore di pochi millimetri, si compone il
mosaico ottenendo l’orientamento e l’inclinazione voluta per ogni
singola tessera, quindi si procede all’unificazione dei pezzi
incastrandoli tra di loro e ricom-ponendo l’unità iniziale.
Usando lo stesso collante si fa aderire l’insieme direttamente
alla parete. Tale metodo di lavorazione permette di realizzare in
laboratorio pannelli musivi di facile manipolazione per robustezza e
leggerezza e quindi di comporli anche in grandi dimensioni su qualsiasi
tipo di superficie conservando tutti i vantaggi espressivi della
lavorazione diretta.
Tale tecnica, infatti, garantisce la massima tenuta dei supporti durante
la lavorazione, il trasporto e la posa in opera ed inoltre la massima
duttilità nell’adeguamento ai vari tipi e dimensioni di superficie,
piane, curve o convesse.
Negli ultimi anni, un gruppo di brillanti ed innovativi designer sta
infondendo linfa nuova in un ambiente che a volte risente del peso
incombente della sua lunga e gloriosa tradizione, aprendo nuovi spazi di
spe-rimentazione e nuovi ambiti d’uso al mosaico.
al sito della scuola mosaicisti del
Friuli
ttp://scuolamosaicistifriuli.it
BETÒNEGA - Bettonica,
Erba notissima, detta da’ Botanici Bettonica Officinalis, le cui
foglie sono odorifere. Questa pianta era una volta coltivatissima in
Venezia, dal che il seguente dettato, ESSER COGNOSSÙO COME LA BETONEGA,
Esser più noto che la mal erba; Essere conosciuto come l’ortica.
betònica o bettònica, s.f. [sec. XV; lat betonica o ve(t)tonica,
dal nome del popolo dei VettÜnes, in Lusitania]. Pianta
erbacea (Stachys officinalis = Betonica officinalis) della famiglia
Lamiacee, detta anche erba betonica. Alta da 20 a 70 cm, ha foglie
opposte, picciolate, ovali-oblunghe, crenate, un po’ pubescenti; fiori
con calice peloso, rosei o porporini, labiati con labbro inferiore
crenato, riuniti in verticillastri costituenti una breve falsa spiga
terminale su scapi quasi privi di foglie. È comune nei boschi collinari e
montani di latifoglie (specialmente nei castagneti) dove fiorisce in
estate. Tutta la pianta emana un gradevole odore un po’ citrato; era
impiegata un tempo nella medicina popolare. In particolari locuzioni dell’uso
popolare: avere più virtù della betonica, essere dotato di molte
buone qualità; noto come la betonica, di cosa o persona molto
conosciute.
Fonti di informazione:
Dizionario del Dialetto Veneziano (Giuseppe Boerio) - Grande Enciclopedia
De Agostini.
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