La Pagina di Rosetta

dalla conferenza del prof. Filiberto Battistin del 15 Aprile 2003



di Mario Meggiato


 

 

 






 

 

 

 














Nietzsche



















Platone

Nietzsche considera Platone e Socrate coloro che sbagliano, in un certo senso i suoi nemici, opposti e tuttavia hanno in comune alcune caratteristiche: sia Platone che Nietzsche intendono la filosofia nel medesimo modo (filosofia come mezzo per conoscere se stessi allo scopo di raggiungere la felicità).
Occorre tener presente che tra i due filosofi ci sono 2000 anni di storia.
In ogni caso, per Socrate la ricerca di sé può realizzarsi solo all’interno della Polis, attraverso il dialogo; diversamente Nietzsche sostiene che è necessario recidere ogni rapporto con gli altri, presupponendo, pertanto, solitudine. 
Tutti e due hanno presente il rapporto ragione/istinti (passioni) e il problema dell’armonia fra queste opposte passioni.
Secondo Nietzsche, Socrate e Platone sono responsabili di una nuova metafisica, ossia di una gerarchizzazione ragione/passione cause rispettivamente del bene e del male. 
Socrate e Platone operano una spaccatura che ha come esito la metafisica: la ragione si separa realizzando il mondo razionale o delle idee o mondo vero escludendo il mondo delle passioni.
Secondo Nietzsche ciò significa preparare la via dell’annichilimento completato successivamente dal Cristianesimo e che ha come conseguenza la negazione della vita (NO alla vita). Socrate dunque sarebbe un decadente, un debole, privo di forza: infatti debole è colui che non ha il coraggio di affrontare la vita per quello che essa è veramente, rinviando ad un’altra vita la perfezione (Cristianesimo). 
La vita diviene allora grigia e monotona. 
Forte è invece colui che ha il coraggio di affrontare veramente la vita e anche la morte: soltanto così può davvero vivere.
Pochi lo sanno fare; gli altri inventano un altro mondo: il Cristianesimo prevede appunto la Beatitudine Eterna, in un altro mondo, così gli uomini deboli rinunciano a sostenere il “peso della vita” inventando perciò la favola metafisica. 
Secondo Nietzsche, prima di Socrate i greci avevano raggiunto il più elevato grado della tragedia toccando il livello più alto della cultura greca, ossia accettazione gioiosa della vita. I greci divinizzavano il corpo e spiritualizzavano l’anima, realizzando l’unità di pensiero e corpo. 
Prima di Socrate, Eraclito aveva teorizzato l’unità del contrasto, ovvero la vita come Polemos o guerra.
La morale, secondo Nietzsche, deriva dalla separazione del razionale dall’irrazionale, ed è appunto Platone che opera questa separazione, inventando così la morale. Nietzsche invece sostiene che bene e male non sono naturali, ma convenzionali. La morale blocca gli istinti. Bene è ciò che corrisponde a ragione. Se vuoi vivere bene, dunque, blocca le passioni. La morale blocca l’uomo lo depotenzia. Ma la valorizzazione della morale è conseguenza dell’invenzione dei valori i quali svalorizzano gli opposti; meglio ancora i valori dichiarano guerra agli opposti.
La valorizzazione va considerata come storia che semplifica l’uomo e che lo riduce. La morale espelle cose dalla vita (l’inconscio) come frutto del processo di eliminazione; l’esito di questa operazione è il nichilismo, che fa emergere il nulla. La vita adesso non ha più senso (Dio è morto) come esito della lotta fra valori che si sono annientati l’un l’altro, creando il deserto. Ciò da origine ad un fatto positivo: inizia una nuova epoca che si concretizza con la creazione di un altro uomo che supera il nichilismo.

Volontà di potenza eterno ritorno.
Se l’uomo vuole conoscere se stesso deve ripercorrere la genealogia della morale, deve cioè andare “al di là del bene e del male”, giacchè essi non costituiscono elementi originali: bene e male non appartengono alla natura dell’uomo e quindi occorre vedere cosa sta prima della loro distinzione. In natura l’uomo è una molteplicità composta di tanti punti di volontà: Volontà di potenza anche in relazione all’Istinto.
L’uomo è l’insieme delle forze e delle volontà che lo compongono; è in condizione di guerra, di conflitto.
Secondo Nietzsche, se vogliamo diventare noi stessi, dobbiamo fare in modo che tutti gli istinti (anche quelli celati dalla morale) emergano (condizione di pericolo). Nietzsche indica la via della felicità nell’atteggiamento di colui che vuole andare a fondo, guardando dentro se stesso: solo così uno riesce a manifestarsi veramente e qualora non ci riesca, è condannato a rimanere incompiuto. 
A proposito dell’anarchie degli istinti, Nietzsche sostiene che occorre adottare una pratica coraggiosa nello stabilire un ordine, o meglio uno stile che determina la differenza tra commedia e tragedia.
La società del gregge è costituita dagli uomini della commedia, che assumono una maschera al fine di evitare i conflitti.
L’uomo della tragedia è colui, invece, che accetta e affronta lo scontro, giacchè la vita è scontro, e quando l’uomo non è capace di accettare lo scontro è destinato a soffrire perché incompiuto.
Un tema affrontato anche da Marx a proposito del lavoro come alienazione (se l’uomo lavora per lo stipendio il lavoro può risultargli alienante).
La Società democratica è la società del lavoro. La via di Nietzsche, è una via solitaria che gli produce sofferenza anche se egli non avrebbe voluto rimanere solo. Scrivendo egli tenta di essere riconosciuto. Solo all’interno della Polis, però, si può uscire dalla solitudine attraverso la relazione e quindi con possibilità di riconoscimento.
Ma per comunicare, sia Platone che Nietzsche, sostengono che non bastano le stesse parole, ma occorre avere in comune le medesime esperienze, sentire le medesime cose, altrimenti l’anima non si muove.
L’Eterno Ritorno costituisce il “peso più grande”, il centro della nostra vita, il fine della vita stessa. Il peso più grande è Dio (vita eterna). 
In questa vita priva di perfezione, occorre compiere dei sacrifici in funzione dell’aldilà. Per Nietzsche, invece, il centro di gravità è questa vita, dove si manifesta la passione per l’Eterno Ritorno “tutto quello che viviamo, lo viviamo in eterno” sta a significare (in metafora) che esso rappresenta l’unicità del nostro agire, pertanto non bisogna rinunciare a manifestare noi stessi.
E’, in sostanza, un’azione che non rinuncia a niente, perchè è l’unica occasione in questa vita. Ciò che è bello è anche eterno, perché perfetto e non ha bisogno di nient’altro. Ogni azione compiuta non ha bisogno di nulla. Ho dunque compiuto me stesso, ho raggiunto la finitezza, la felicità (come in Socrate).
Il non aver bisogno di nulla, nemmeno della vita. E, il bello, in quanto perfetto, è sottratto al tempo (che altrimenti sarebbe mancante). La morte altrimenti ci coglierebbe nella mancanza (affinità Socrate, Platone e Nietzsche). 
Piena accettazione della vita, dunque: solo così, è possibile sottrarsi alla paura della morte, solo attraverso questa completa accettazione, l’uomo può manifestare compiutamente se stesso.
Tragedia, e non commedia, equivale alla divinizzazione dell’uomo perfetto e divino.

Etica oltre la morale
All’uomo è assegnato un compito dalla natura.
Questo compito è quello di essere felice.
Ergon che vuol dire essere felici e giusti.
Aretè: virtù ossia disposizione migliore.
Etica quindi precedente alla morale, che si concretizza nel prendersi cura di se stessi e degli altri.


LE STRADE DI MESTRE

Via Aleardi – Parallela fra Via Cappuccina e Corso del Popolo.

Aleardo Aleardi – Poeta (Verona 1812-1878), Presa parte, nel 1848, alle difesa della Repubblica Veneta e fu due volte imprigionato dal governo Austriaco, a Mantova nel 1852 e a Josephstadt (Boemia) nel 1859. Insegnò a Firenze estetica e storia dell’arte; fu deputato e senatore. Giunto al successo con le Lettere a Maria (1846), vide crescere rapidamente la sua popolarità, che raggiunse l’apice con la pubblicazione dei Canti (1864); altrettanto rapido fu il suo declino, determinato dalla reazione di fine Ottocento al tipo di romanticismo cui s’ispira la poesia dell’Aleardi, come quella del Prati; la critica odierna, pur mostrandosi più benevola, non si è mai spinta fino a una rivalutazione totale. Nel mondo poetico aleardiano si avverte la lezione del Foscolo, sia sotto l’aspetto contenutistico (amore e patria sono per l’Aleardi motivi poetici fondamentali), sia nei riguardi dello stile; manca la tensione foscoliana, per cui il motivo patriottico è indebolito e alterato, mentre il tema amoroso scade sul piano d’uno sfocato sentimentalismo. Ma accanto al falso c’è un vero Aleardi: è il «poeta di bontà e malinconia» – come lo definì il Croce – che, nel Monte Circello (1856), canta l’accorata nostalgia dei mietitori abruzzesi nella desolazione delle paludi pontine; è il poeta della storia, che nelle Antiche città italiane marinare e commercianti (1856), rivela una così viva capacità di rievocazione storica da giustificare l’attributo di precursore della poesia carducciana, su toni che troviamo in Prima storia (1857), I tre fiumi (1857), Un’ora della mia giovinezza (1858), Sette soldati (1861), Canto politico (1862) e Fuochi dell’Appennino (1863). Al Carducci, come al Foscolo, si ricollega, in tono minore, l’Aleardi, per la cura dello stile e l’attenzione prestata alla struttura metrica e musicale.