«L’Historia si può
veramente definire una guerra illustre contro il Tempo, perché
togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaveri,
li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in
battaglia….” Dall’introduzione
Villa Manzoni al Caleotto
Don Abbondio e i Bravi
Quel ramo del Lago di Como, che
volge al mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti,
tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare
di quelli...
Renzo e Lucia
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Aspetto
fisico del Manzoni
Aspetto
fisico del Manzoni Aveva il naso lungo, la bocca affilata, il labbro
inferiore e il mento un po’ sporgenti, gli occhi chiari, luminosi,
scintillanti.
Vestito
semplicemente di grigio o di nero, camminava con le spalle alte verso il
capo e se vedeva qualcuno per la prima volta si rannicchiava ancora di
più, mentre faceva il primo inchino.
Nessuno
riusciva a capire quali pensieri si nascondessero dietro gli occhi
mobilissimi di questo padre distratto, di questo dilettante di giardini e
di letteratura, di quest’ombra squisita ed elegante.
Alessandro Manzoni
Vita
e opere
Alessandro
Manzoni nasce a Milano nel 1785 da Pietro e Giulia Beccaria.
Il matrimonio dei genitori non è felice, Giulia Beccaria lascia così il
marito e va a vivere a Parigi.
Alessandro vive dapprima in collegio, ma, dopo la morte del padre,
raggiunge la madre. Gli anni nella capitale francese, dal 1805 al 1810,
sono decisivi nella sua formazione culturale, che è sostanzialmente di
stampo illuminista, razionalista e anticlericale.
L’avvenimento più importante della sua vita sarà perciò la
conversione al cattolicesimo, che avverrà intorno al 1810, due anni dopo
il suo matrimonio con Enrichetta Blondel.
Lo stesso anno della sua conversione Manzoni torna a vivere a Milano, dove
resterà poi fino alla morte, ad eccezione di alcuni mesi trascorsi a
Parigi, tra il 1819 e il 1820, e di qualche breve viaggio a Firenze, nel
1827 e nel 1856. L’esistenza dello scrittore trascorre quindi nel lavoro
e nell’intimità familiare, lontano dalla curiosità e dagli impegni
mondani, tra Milano e la sua villa di Brusuglio, nella campagna lombarda.
Ecco perché, oltre alle date di pubblicazione delle sue opere, pochi sono
i fatti da registrare della sua lunga vita, protrattasi fino al 1873 e
attraversata da dolorosi lutti: la morte, nel 1833, della prima adorata
moglie; poi, quella della madre, nel 1841; della seconda moglie Teresa
Stampa, nel 1861; e infine di ben sei dei suoi otto figli. Tra i pochi
avvenimenti della vita manzoniana si ricorderanno la partecipazione, nel
1861, dopo la nomina a senatore del nuovo Regno d’Italia, alla prima
seduta del Parlamento; il suo intervento, nel 1864, alla votazione per il
trasferimento della capitale da Torino a Firenze; l’accettazione, nel
1870, della cittadinanza romana, per dimostrare pubblicamente la propria
convinzione della necessità della scomparsa del potere temporale della
Chiesa.
Le opere giovanili di Manzoni nascono nel clima culturale milanese,
dominato dalla presenza di Vincenzo Monti. Così è del Trionfo della
libertà, composto dopo la pace di Luneville, nel 1801, e così è anche
dell’epistola in versi l’Adda, del 1803. Più tardi, nei Sermoni
(1804), Manzoni tenta i modi della poesia satirica, guardando al Parini
come maestro. Il testo più maturo e signifìcativo dell’opera giovanile
manzoniana è tuttavia il carme In morte di Carlo Imbonati (1805), che
costituisce un documento assai eloquente della precoce e robusta maturità
morale di Manzoni, della sua ricerca di un programma austero di vita.
Gli sposi promessi
I
“Promessi Sposi”, senza ombra di dubbio, è il romanzo più
famoso della letteratura italiana.
Scritto per la prima volta nel
1821, aveva come titolo “Fermo e Lucia” e divenne in seguito
“Gli sposi promessi”. In questa prima edizione, erano diversi
sia i nomi di alcuni personaggi, sia alcuni episodi. La lingua
utilizzata era “un composto indigesto”, fatto di frasi un pò
lombarde, un pò toscane, un pò francesi e un pò anche latine.
Insoddisfatto per tale motivo, il Manzoni si rimise all’opera
cercando di correggere costrutti e vocaboli. Ne uscì un secondo
romanzo, che fu pubblicato nel 1827 col titolo “I Promessi
Sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da
Alessandro Manzoni”. Fu un successo strepitoso. In meno di venti
giorni se ne vendettero seicento copie.
Tra la prima e la seconda
stesura c’è una notevole differenza: nella prima è possibile
evincere una concezione totalmente pessimistica della vita, mentre
nella seconda il pessimismo è mitigato dalla fede nella
Provvidenza e nella Giustizia di Dio.
Ma il Manzoni non era
contento neanche della seconda redazione perché la lingua gli
sembrava ancora piena di lombardismi.
Nello stesso anno, il 1827,
si recò, pertanto, a Firenze a “risciacquare - come egli diceva
- i cenci in Arno” e sottopose il suo romanzo ad un’accurata
revisione linguistica sul modello del fiorentino.
Si ebbe così la
terza e definitiva edizione del romanzo, che fu pubblicata tra il
1840 ed il 1842.
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La storia autentica della poesia manzoniana inizia però con gli Inni
sacri, che testimoniano della conversione religiosa del loro autore.
Dopo la conversione al cattolicesimo, Manzoni progetta una serie di dodici
Inni sacri, dedicati ciascuno ad una festività della Chiesa: di
essi ne porterà a termine solo cinque, i primi quattro fra il 1812 e il
1815 (La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione) e il
quinto (La Pentecoste) tra il 1817 e il 1822. In questi Inni
Manzoni non si occupa soltanto degli aspetti dogmatici e teologici del
cristianesimo, ma soprattutto dei suoi aspetti morali e sociali, più
direttamente vissuti dalla coscienza religiosa popolare.
Dopo la stagione
degli Inni sacri, tra il 1815 e il 1822, si apre un altro lungo
periodo di riflessione inferiore che porta ad un crudo pessimismo: la
conquista di un «credo» religioso viene sottoposta ad un processo di
discussione, mentre l’attenzione di Manzoni si apre ad una complessa
visione delle ragioni dell’esistenza e si sforza di rintracciare nella
storia i segni visibili di una presenza divina. In questo periodo di
riflessione nascono le odi civili, e tra di esse il Marzo 1821, in
cui Manzoni, celebrando l’unirsi delle forze piemontesi e lombarde
contro l’oppressore austriaco (un’unione in cui egli scorge il segno
della volontà di Dio), proclama il suo ideale unitario di patria, nel
sogno di un’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare».
Più che in queste odi, tuttavia, è nelle tragedie che si può osservare
l’ampliarsi della problematica manzoniana.
Ciò che importa allo scrittore, nel suo teatro, è la rappresentazione di
una drammatica tensione morale dei suoi personaggi: i quali, quanto più
sono impegnati a combattere per un ideale generoso, tanto più appaiono
poi travolti dalle leggi della forza e della violenza che dominano il
mondo. È questa la situazione del Conte di Carmagnola (1820), ma
soprattutto dell’Adelchi (1822), nella quale è rappresentato il
momento conclusivo della guerra tra franchi e longobardi. Adelchi,
figlio di Desiderio, re dei longobardi, è il personaggio-chiave della
tragedia. Al fedele Anfrido confessa in un momento di smarrimento: «Il
core mi comanda/ alte e nobili cose; e la fortuna [il destino]/ mi comanda
ad inique». Ed in ciò sta la sua personale vicenda drammatica e il
problema morale che Manzoni vuol rappresentare. La realtà si oppone al
desiderio dell’uomo di operare nel giusto; ogni sua azione sfocia in una
direzione opposta a quella voluta. Ed è proprio questa condizione
assurda, ma tragica, in cui l’uomo viene a trovarsi, che determina
quella scelta a non agire.
Solo non agendo è possibile infatti non commettere il male: Adelchi,
«trascinato» per una via che non ha potuto scegliere, germe «caduto in
rio [cattivo] terreno/ e balzato dal vento », diviene così l’eroe
romantico della non azione. Nell’ambito di questi problemi si pone anche
l’ode celebrativa scritta in occasione della morte di Napoleone
Bonaparte, il Cinque maggio, del 1821. L’immagine di Napoleone,
«folgorante in solio» (splendente in trono) prima, e sopraffatto poi dai
ricordi nell’«ozio» dell’esilio, pare diventare l’immagine simbolo
di un uomo che, pur nell’aspirazione a portare nel mondo le idee per una
vita più giusta, seminava l’Europa di stragi. Senonché, rispetto all’Adelchi,
nel Cinque maggio i termini appaiono capovolti: il destino di
Napoleone, svela in realtà l’«orma» di un preciso disegno
provvidenziale di Dio, riassume simbolicamente il percorso stesso della
storia, la quale, attraverso la sua tragica vicenda di sangue e di
violenza, sfocia a giuste conquiste. E da questa concezione della storia,
in cui la Provvidenza divina segna il suo cammino, nascerà il capolavoro
manzoniano, I promessi sposi appunto, pubblicato una prima volta
nel 1827 e, in edizione definitiva, nel 1840. Tra le due edizioni del
romanzo e dopo l’edizione definitiva dei Promessi sposi c’è un lungo
periodo di silenzio creativo, il quale è appena interrotto dalla
pubblicazione di alcune opere a carattere storico: il dialogo Dell’invenzione,
del 1840; la Storia della colonna infame, del 1842, che riprende il tema
della peste; il discorso Del romanzo e in genere dei componimenti misti di
storia e d’invenzione, del 1845, dove Manzoni giunge a condannare il
dramma e il romanzo storico, riconoscendo solo nella storia quel «vero»
che lo scrittore deve perseguire.
Più importanti saranno però i suoi
scritti sulla lingua. Attraverso una serie di testi (Sulla lingua
italiana e Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla,
ambedue del 1845; Lettera al marchese Casanova, del 1871), Manzoni elabora
infatti una sua organica teoria linguistica, la quale trova il suo punto
di riferimento costante nel principio che la lingua scritta deve
accostarsi a quella parlata.
La norma di ogni scelta linguistica non sta quindi in una conferma che
venga da un uso letterario, ma semplicemente nella conferma del parlato.
Su questa base teorica Manzoni discute il problema dell’unità
linguistica italiana: essa, vista la diversificazione notevole della
lingua parlata nelle varie regioni, non può essere raggiunta che
attraverso l’uniformarsi delle singole parlate a quella di maggior
prestigio, cioè alla fiorentina. Nel parlato fiorentino delle persone
colte, Manzoni indica perciò la norma da seguire per l’unificazione
linguistica italiana.
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