Dintorni di Mestre


Da piccolo borgo a importante centro industriale al suo declino.



a cura di Aldo Ghioldi

Mergera, Margera o Malghera, di cui si hanno notizie già dal XIV secolo, quando cioè Treviso decise di costruirvi una torre per controllare i contrabbandieri, era un piccolo borgo di pescatori, e barcaioli, con case, un’osteria, una chiesa e un ricovero detto S. Giuliano Buon Albergo.

 

 

 













































































































































































































Forte Marghera.

 

Nella località chiamata Marghera posta tra il Canal Salso ed il margine lagunare di S. Giuliano, nel 1359 Venezia costruì un vero fortilizio a scopo difensivo.

Nei secoli seguenti, essendo ormai il confine della Serenissima sull’Adda, questa postazione fu, di fatto, trascurata, finché gli austriaci, subentrati ai francesi nell’occupazione del territorio mestrino, nel 1805 ritennero necessario costrui-re un fortilizio che difendesse il porto di Venezia anche da terraferma, a causa dell’aumento della capacità di gittata dell’artiglieria.

Il forte fu nel 1811 completato dai francesi, (ritornati forze di occupazione) nella sua forma attuale: un pentagono con due cinte di bastioni separate da un fossato e tre bastioni esterni a forma di punta di lancia, collegati da camminamenti. Insomma, quanto di meglio offrisse l’architettura militare del tempo.

Le truppe volevano viveri, alloggi, carri, attrezzi, materie prime (legno, paglia, fieno), compivano requisizioni e si abbandonavano a prepotenze di vario tipo, causando penuria di viveri, inflazione, e contrabbando. 
Fin dall’inizio non fu molto amato quel forte dai barcaioli mestrini: si era sovrapposto alla parte centrale del canale deviandone il corso rettilineo e cancellando il piccolo abitato di Marghera.
Ora erano costretti a lambirne le spezzate linee geometriche dalle rive rivestite di pietra d’Istria, ma soprattutto le esigenze di strategia militare imponevano spesso divieti al transito, perquisizioni, requisizioni, senza contare che su uno degli spalti più esterni era stata posta la garitta dell’esattore della tassa di navigazione, che quanti transitavano erano costretti a pagare, pena multe salate fino al sequestro della barca.

Verso la fine del XIX secolo Venezia andava dimostrando la sua completa inadeguatezza a diventare un centro industriale all’altezza dei tempi ed una stazione portuale tale da poter competere con altri scali marittimi del bacino del Mediterraneo.


Veduta della zona industriale e del Quartiere Urbano


Fu nel 1917 che con vero atto di esproprio la zona a mezzogiorno della linea ferroviaria Venezia-Padova detta dei Bottenighi, circa un quarto del territorio dell’allora Comune di Mestre, passò in proprietà alla Società “Porto industriale di Venezia” alla quale fu affidata l’esecuzione delle opere che avrebbero portato alla creazione di quello che è conosciuto con il nome di Porto Marghera.

Il nome che nei secoli passati stava ad indicare un piccolo centro abitato posto in località non lontana da S. Giuliano, fu ereditato dalla zona a sud di Mestre che nel giro di mezzo secolo si sarebbe trasformata in uno dei più importanti centri industriali d’Italia. 
Il programma delle opere da eseguire nella zona doveva svilupparsi in tre direzioni:

- creazione di un porto commerciale a completamento di quello già esistente a Venezia ma ormai carente sotto tutti gli aspetti;

- creazione di un porto industriale destinato all’insediamento di stabilimenti e cantieri avvantaggiati dalla presenza di un porto commerciale, di uno scalo fluviale ottenuto con un collegamento all’altezza di Oriago con il Naviglio Brenta e con alle spalle un nodo ferroviario e stradale, uno dei più notevoli della penisola;

- creazione di un quartiere urbano per smaltire la eccedenza della popolazione che già sovraffollava il centro storico e le isole.

Nel 1919, alla fine della prima guerra mondiale, ebbero inizio i lavori di canalizzazione e di bonifica del vasto territorio. 
Nel 1922 era condotta a termine la costruzione del canale che univa il porto di Venezia a Marghera ed il canale di penetrazione detto Canale Industriale Nord. Sulle rive di quest’ultimo si realizzarono gli insediamenti degli stabilimenti che nel 1939 avrebbero raggiunto il ragguardevole numero di un centinaio. 
Dopo il secondo conflitto mondiale e la ricostruzione sulle rovine della guerra lo sviluppo industriale non trovò sosta. 
Nel 1967 il numero degli stabilimenti era di oltre duecento con una superficie coperta di duemila ettari, con diciotto chilometri di canali, centoquarantacinque chilometri di rete ferroviaria, quarantun chilometri di strade interne e trentacinquemila lavoratori occupati. Parallelamente allo sviluppo del centro industriale procedeva quello del quartiere urbano con il richiamo nella zona di molti abitanti del centro storico, delle isole e dei comuni limitrofi di terraferma.

Ulteriori programmi per un ulteriore ampliamento della zona industriale sono stati bloccati in seguito alla sempre maggiore presa di coscienza dei gravi danni che l’indiscriminato e non regolamentato sviluppo dell’industria può apportare all’ambiente naturale come d’altra parte si è potuto constatare quale infelice iniziativa sia stata quella di far sorgere un quartiere urbano a ridosso di una zona industriale.

Dalla “Storia della Terraferma di Venezia” di Sergio Barizza e da “Uomini, cose e fatti di Mestre” di Luigi Brunello.

Attualmente non c’è giorno che passi senza che qualcuno, giustamente, protesti contro i pericoli e l’inquinamento ambientale che il porto industriale produce. 
Al riguardo ci sembra utile trascrivere alcuni passi di ciò che viene pubblicato via Internet da www.legambientedoc.it.


Veduta del bacino e dell’«Avamposto Petroli»

Il Piano Regolatore del 1962, testamento di Porto Marghera
"Nella zona industriale di Porto Marghera troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze velenose, che producono vibrazioni e rumori". E’ questo un passo delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore di Venezia del 1962 (il III comma dell’articolo 15 per la precisione) rimasto in vigore fino al 1990 ed applicato dunque, purtroppo alla lettera, per trenta anni: è così che è nata una delle più grandi zone industriali nazionali ed il più grande polo chimico italiano ai bordi della laguna di Venezia, uno dei luoghi più preziosi del mondo. Quella norma tecnica, quel terzo comma dell’articolo 15, suona come una campana a morto per Porto Marghera, fornisce l’alibi per la legalizzazione dell’omicidio di quell’area. E si deve però sottolineare che se tanti danni sono stati permessi col bene placito di bolli, visti e autorizzazioni, altrettanti - con una logica da far west - sono stati commessi in barba alle leggi, alle norme ambientali e a quelle sanitarie.

Cosa c’entra Venezia con Porto Marghera?
E’ una domanda oggi spontanea, fosse stata posta prima il più grande Polo Chimico italiano non sarebbe mai sorto in laguna. Non che causare la morte degli operai, mettere a rischio la salute delle popolazioni, provocare un serio degrado ambientale da altre parti sarebbe lecito. Ma qui, la vicinanza con un bene storico, architettonico e culturale unico al mondo è certamente da considerare un’aggravante. E’ comunque utile, pur se a cose fatte, ridiscutere quelle scelte alla luce del grave impatto ambientale e sanitario sia perché non si ripetano errori simili sia perché al danno non si aggiunga altro danno sbagliando anche nel riprogrammare il destino di queste immense aree industriali, in gran parte dismesse ed inutilizzate. Quello che c’è stato finora è noto: indifferenza per la popolazione, indifferenza per i controlli, indifferenza per i lavoratori, indifferenza per la vita umana.

L’emergenza sanitaria dell’area industriale
I lavoratori del petrolchimico per primi sono stati sottoposti per anni ad esposizioni di cloruro di vinile che hanno pesantemente sfondato i limiti di tollerabilità massima per il corpo umano, con concentrazioni che sono arrivate oltre le 1.000 parti per milione (ppm).
Tanto per avere un termine di raffronto si può far riferimento alle indicazioni dell’organismo americano che controlla gli ambienti di lavoro (OSHA) che già nel 1974 imponeva concentrazioni massime di CVM di 1 ppm nell’arco delle otto ore lavorative, mentre il legislatore italiano (e solo nel 1981) ha imposto il limite di 3 ppm come media annuale, permettendo così esposizioni a picchi ben più alti. Gli effetti sanitari del continuo contatto con dosi massicce di CVM sono purtroppo evidenti: centinaia di lavoratori sono stati colpiti da cirrosi, epatopatie, lesioni delle piccole ossa del polso, cancro al fegato, al cervello, al sistema emolinfopoietico, ai polmoni.
Fino ad oggi è stato accertato che 20 operai sono morti per tumore al sistema linfoemopoietico, 45 per tumore all’apparato respiratorio, 5 per melanomi, 30 per tumore al fegato, 5 per tumore al cervello.
I terribili effetti del CVM divengono ancora più chiari se si prende in esame il gruppo di lavoratori più esposti, i cosiddetti autoclavisti. Tra le persone che operavano in questo settore si contano finora 18 decessi: 14 per tumore, 3 per cirrosi epatica ed uno soltanto per una patologia cardiaca e dunque non riconducibile all’esposizione con il CVM. I periti hanno dimostrato che questi operai corrono un rischio 7,5 volte maggiore del normale di contrarre un tumore al fegato e 600 volte più alto di contrarre una rara forma di tumore epatico (l’angiosarcoma del fegato).

Gli scarichi di 2.000 camini industriali sopra Marghera
Il rischio sanitario è stato ed è tuttora alto pure per le popolazioni che vivono a stretto contatto con l’area industriale. Ad esempio la qualità dell’aria attorno agli impianti è decisamente peggiorata a causa delle emissioni inquinanti emesse dai camini della Montedison; varie ricerche scientifiche sugli abitanti della zona e soprattutto sui bambini hanno più volte evidenziato la maggiore insorgenza rispetto alla media nazionale di malattie all’apparato respiratorio; i quotidiani hanno a più riprese riportato notizie su periodiche fughe di gas (compreso il pericolosissimo fosgene) dal petrolchimico.
E poi acclarate erano anche altre due minacce gravissime: i solventi clorurati vomitati dagli impianti sono estremamente tossici e quando si accumulano nell’ambiente possono entrare nella catena alimentare attraverso, ad esempio, cozze e vongole coltivate sul fondo della laguna; la produzione di PVC invece comporta o può comportare la formazione di piccole quantità di diossina.
Cosa è successo? Quali provvedimenti sono stati presi? Nessuno, fino a pochissimo tempo fa nessuno. Pochi controlli, tanta superficialità dolosa o colposa, molti depistaggi, occultamenti.

L’impatto sull’ecosistema lagunare
E poi l’impatto ambientale su un ecosistema, quello lagunare, per sua natura fragile, dove il ricambio delle acque è molto scarso e dove di conseguenza gli inquinanti si accumulano più facilmente e più velocemente. In particolare produrre PVC in questo ambiente si è tradotto per decenni nello sversamento nelle acque della laguna di Venezia di più di 2.000 tonnellate di solventi clorurati l’anno. Non meraviglia perciò che quegli stessi vengano oggi ritrovati nelle melme di fondo laguna provocando tra l’altro gravi problemi alla coltura e alla raccolta dei molluschi. Lo stesso impianto ha emesso nell’aria ogni giorno dalle 5 alle 10 tonnellate di cloruro di vinile, una sostanza di cui è accertate la cancerogenicità.

5 milioni di tonnellate di rifiuti e terreni contaminati da bonificare.
Il totale in tonnellate dei rifiuti o terreni contaminati da bonificare è di ben 5 milioni. Come stupirsi dunque del fatto che i dirigenti Enichem e Montedison siano stati poi tutti imputati per avvelenamento delle acque di falda sottostanti la zona di Porto Marghera. Acque utilizzate, è bene ricordarlo, per usi domestici ed irrigui ed in cui compaiono solventi clorurati, solventi aromatici, fenoli, ammoniaca, amine aromatiche, piombo, cadmio, zinco, mercurio e arsenico. E come ci si può stupire del fatto che gli stessi dirigenti siano anche imputati per aver avvelenato i sedimenti delle acque nei canali e negli specchi lagunari e, con essi, pesci e molluschi abbondantemente pescati e venduti in tutto il paese (tuttora, nonostante il divieto).

Il rischio di incidente a Porto Marghera
L’elenco delle attività produttive concentrate a Marghera è impressionante: polo chimico, alluminio, cantieristica navale, petrolifero-raffinazione, siderurgia, energia elettrica, commercio di prodotti petroliferi. Nel settore chimico le attività produttive più consistenti sono divise in tre stabilimenti: il Petrolchimico, Montefibre, Agrimont.

Il Petrolchimico raggruppa una serie di società che opera in diversi settori: dalla produzione di agrofrene, fluobrene, acido cloridrico, buradiene, butilene, sbiancanti ottici, ossigeno liquido, azoto, al cloro, la soda, l’etilene, il propilene, la frazione C4, la benzina k ecc. Lo stabilimento Montefibre produce fibre acriliche. Lo stabilimento Agrimont produce fertilizzanti, ammoniaca e tripolifosfato. Nella zona industriale ci sono circa 2.000 camini o sfiati che emettono 240.000 tonnellate/anno di sostanze varie, tra cui alcune riconosciute cancerogene dall’OMS, come nitrile acrilico, ammine aromatiche. In generale le strutture pubbliche competenti per i controlli igienico-ambientali (Usl, Comune, Provincia) non sono dotate di mezzi e personale adeguati, sia per i rischi sanitari interni che per quelli esterni agli impianti.

Le indagini mediche dimostrano che tra i bambini di Marghera e Mestre si registra un incidenza di malattie respiratorie di 2/3 volte superiore rispetto a quella di altre zone campione. Il Piano Triennale del Ministero dell’Ambiente comprendeva il Progetto DISIA che prevede il monitoraggio delle emissioni di una decina dei più pericolosi camini (TDI, CS28, CVM, ENEL, SELM, Allucentro Aluminia, Carbochimica) e un indagine epidemiologica sulla popolazione del territorio limitrofo alla zona industriale. Attualmente soltanto pochi camini sono dotati di apparecchiature di controllo in continuo delle emissioni , mentre sarebbe necessario estendere l’uso di strumenti di controllo con blocco automatico degli impianti quando le emissioni superano i limiti di legge.

La rete di centraline per il controllo dell’inquinamento atmosferico gestita dalla Provincia di Venezia è in grado di rilevare soltanto pochi parametri, non sempre significativi e mai alla fonte delle emissioni. Dal 1917 sono finiti in Adriatico circa 80 milioni di tonnellate di rifiuti. La Regione Veneto ha riconosciuto che l’inquinamento di metalli pesanti e composti tossici (fenoli, cianuri, solfuri, tensioattivi) è oggi presente nei sedimenti di tutta la Laguna. I rilasci in acqua attualmente ammontano a 20.000 tonn/anno e comprendono solventi clorurati, oli minerali, cianuri, solfiti, fluoruri, acido cianidrico, fosfati, mercurio, piombo, zinco, cromo. È evidente che in una zona come quella di Porto Marghera, con una concentrazione così alta di impianti a rischio, di stoccaggio di sostanze pericolose e di movimentazione delle stesse per terra e mare, c’è anche forte la problematica legata al rischio di incidente per le popolazioni.

Il Piano di Protezione Civile, elaborato dalla Prefettura di Venezia è ancora riservato. Pertanto non si conoscono gli eventi considerati e gli interventi di emergenza previsti. Tra gli elementi di rischio vi è anche la rotta aerea di avvicinamento all’Aeroporto Marco Polo. Nella zona industriale di Marghera risultavano presenti fino all’ultimo aggiornamento del Ministero dell’Ambiente non ancora disponibile 15 impianti soggetti a notifica (classe di rischio A, DPR 175/88) e altri 25 impianti soggetti a dichiarazione alla Regione che avevano in ciclo produttivo o in stoccaggio sostanze pericolose (classi di rischio B1 e B2, DPR 175/88). Ma il problema principale ad oggi è forse quello legato al trasporto via mare di sostanze pericolose, in particolare petrolio e suoi sottoprodotti. Problema che si ripropone dopo ogni incidente di questi ultimi anni (v. Genova e Livorno) e di cui si smette di parlare poco dopo. Ed infatti continuano ad esserci: rotte estremamente intasate; navi vecchie e inadeguate al tipo di prodotto trasportato; pochi controlli sulla sicurezza del mezzo; navi usate come depositi galleggianti in attesa di variazioni favorevoli dei prezzi; super sfruttamento dei lavoratori del mare, con carenza di personale, turni massacranti che determinano cadute di attenzione e di riflessi. Le quantità di petrolio movimentate nei nostri mari sono talmente grandi da costituire un serio problema.

A Porto Marghera arrivano 11 milioni di tonnellate l’anno di petrolio e derivati (il 42% del traffico marittimo) trasportate da circa 2000 navi di ogni taglia, comprese 124 grandi petroliere, attraversando la laguna di Venezia. Circa un migliaio di navi risale fino ai giganteschi depositi di idrocarburi (Montedipe, Agip, Decal, Ip, San Marco, Esso, Icip e Api) che si trovano di fronte al Ponte della Libertà, il collegamento stradale/ferroviario tra Venezia insulare e la terraferma.

Ma nella Laguna di Venezia non transitano solo prodotti petroliferi ma anche migliaia di piccole navi e bettoline che trasportano prodotti chimici molto più pericolosi per l’ambiente e per l’uomo. Un traffico valutabile intorno ai 2 milioni di tonnellate/anno di prodotti vari che sono quasi tutti o tossici o infiammabili o esplosivi. Omissis... Secondo lo stesso Magistrato delle Acque, organo periferico del Ministero dei Lavori Pubblici, il rischio "risulta elevatissimo" in considerazione del numero delle navi, della loro portata e della lunghezza complessiva del tragitto in ambito lagunare.