Valter Fontanella è
nato a Venezia-Mestre nel 1938, ha studiato all’Università di Padova e
si è laureato in Lettere classiche. Ha collaborato con gli Istituti di
Latino di Padova e di Venezia e ha al suo attivo recensioni e articoli
specialistici di filologia classica, oltre a una voce dell’enciclopedia
virgiliana (“Virgo e Virgineus”) e l’edizione in due volumi del De
Die Natali di Censorino. Recentemente, in occasione dei nostri LUNED'ARTE,
ha presentato il romanzo FONDANDO VENEZIA TRA VELME E BARENE e si è reso
disponibile a collaborare con la nostra rivista fornendo dei brevi
racconti inediti. |
Ma
quanta cacca si trova oggigiorno su e zo per calli e ponti di Venezia, ho
cominciato ben presto a pensare, vagamente perplesso e piuttosto
infastidito, lo scorso sabato mattina. Ah, la mia adorata Venezia!
Bellissima città e incantevole ammaliatrice. Città ideale, generata da
un antico sogno e tradotta in splendida, unica e irripetibile realtà
dalle abili mani operose degli artefici, dalla fantasia audace degli
ideatori, dalle notevoli ricchezze dei cittadini, dalle savie leggi degli
antichi legislatori, dallo scorrere inclemente dei secoli.
Città stupenda a misura d’uomo e unica al mondo, Venezia. È la città
in cui riconquisti il piacere di camminare, di sostare senza fretta per
calli e campielli, in cui assapori il piacere di incontrare gente e
parlare con un tono assolutamente normale di voce, perché gli unici
rumori sono quelli della gente stessa, quelli delle persone che si
chiamano, si incontrano e si mettono a chiacchierare. Qui la quiete non è
disturbata dai rumori frastornanti del traffico, che rende disumanizzati e
invivibili tanti altri centri storici. Gli abitanti di altre città si
inventano con tanta fatica e innumerevoli resistenze le isole pedonali,
qui una città intera è un’isola pedonale in cui puoi camminare e
fantasticare a tuo agio, puoi distrarti e divagare come meglio ti piace,
senza correre il rischio di incappare nei pericoli del traffico urbano.
In epoche passate, in ogni stagione dell’anno e della mia vita, ogni
volta che sono riuscito a liberarmi per un poco dal lavoro, ho sempre
trovato il tempo e il modo di fare una capatina più o meno lunga a
Venezia. Il tempo era poco? Non importava, bastava che prendessi un treno
al mattino presto e uno tardi alla sera, per il ritorno, e per tutta un’intera
giornata la città era mia. Un vero toccasana per lo stress indotto dai
molteplici, notevoli e continui impegni della mia delicata professione.
Ricordo ancora il mio primissimo viaggio a Venezia, allora ero un bimbetto
di sette anni. Quella era l’età che vantavo con fiero orgoglio quando
mio padre, che doveva recarsi nella Biblioteca Marciana per consultare un
codice antico, aveva voluto che lo accompagnassi, assieme alla mamma,
beninteso. Allora per la prima volta ho provato il piacere unico di
camminare e di giocare in mezzo alla «strada» senza l’assillo del
traffico e senza destare preoccupazioni nella mamma. Pochi mesi dopo mio
padre era ritornato in Venezia per una ricerca all’Archivio di Stato.
Memore della visita precedente, lo avevo pregato di condurmi di nuovo con
lui. Proprio allora, in occasione di questa seconda visita, era sbocciato
il mio amore imperituro e viscerale per la città. E da allora avevo
sempre chiesto a mio padre di permettermi di accompagnarlo, quando i suoi
frequenti viaggi di studio avevano come meta Venezia.
A un certo momento dei miei anni giovanili mi ero anche inventato un gioco
assai confacente a questa città labirintica. Imboccavo a occhi quasi
chiusi una calle qualsiasi e mi lasciavo portare a caso di calle in calle,
guidato solamente dalla mia curiosità e dal gusto di scoprire angoli
nuovi, senza mai chiedere a eventuali passanti informazioni sulla via del
ritorno. Non lo facevo nemmeno quando non riuscivo più a raccapezzarmi e
cominciavo a provare l’impressione vagamente inquietante di girare in
tondo, di essermi perso. Perfino in quelle occasioni avevo la certezza che
a un dato momento il mio girovagare sarebbe finito, perché mi sarei
comunque ritrovato in una zona che mi era nota, e dalla quale mi sarebbe
stato facile raggiungere il punto di arrivo prefissato della mia
passeggiata.
Da allora, dalla mia giovinezza, e soprattutto da quando sono diventato un
adulto, è andato crescendo il mio amore per la città, che di tanto in
tanto è stata l’oggetto delle mie visite, sempre rinnovate con
grandissimo e unico piacere, e che ho voluto conoscere profondamente,
senza stancarmi mai di girare per tutte le calli, anche le più nascoste e
solitarie. La conoscevo e la conosco talmente bene, che ormai da tanto
tempo la considero la mia seconda città natale, e non è certamente
seconda nell’amore che le porto. E poi, purtroppo, dopo tante allegre
scappate, assai frequenti e regolari, per un periodo molto difficile e
triste della mia vita, per parecchi anni, certamente troppi e
interminabili per il mio desiderio, non sono riuscito a visitare Venezia
nemmeno una volta all’anno. In un primo momento ne sono stati causa gli
impegni davvero oberanti del mio lavoro, successivamente sono intervenuti
assillanti problemi di famiglia, poi ancora sono stato colpito da una
grave malattia che mi ha a lungo impedito di allontanarmi dalla mia
città. Eh, tante cose mi ha proibito la mia condizione fisica, e tante mi
ha impedito di fare. Per tutto quel lungo periodo Venezia è vissuta
solamente nel mio fantasticare.
Per fortuna tutto questo appartiene al passato, mi sono detto alcuni
giorni fa, quando, era sabato mattina molto presto, alla biglietteria
della stazione di casa ho finalmente comperato un biglietto per il treno.
«Venezia. Andata e ritorno» ho detto con voce trepidante di felicità al
bigliettaio che mi chiedeva la destinazione, e già mi sentivo piuttosto
emozionato. Ho preferito ritornare a Venezia di sabato, perché, in tanti
anni, ho constatato che è la scelta migliore per una persona che è
occupata durante la settimana e che ama le passeggiate tranquille.
Di domenica, è fatto notorio ed esperienza già fatta, c’è in giro
troppa folla di visitatori mordi e fuggi.
Sabato scorso, allora, dopo poco più di due ore di comodo viaggio, ho di
nuovo provato il grande e unico piacere di scendere dal treno nella
Stazione di Santa Lucia e di rimettere piede nella mia amata città unica
al mondo. Quella mattina, così splendente di sole, ho pensato subito, e
in tanti viaggi mai prima mi era venuto in mente, che il nome di S. Lucia
dato alla stazione si adatta perfettamente al luogo, perché, uscendo dai
suoi ombrosi recessi, ho provato l’impressione emozionante di uscire
veramente alla luce. Per un lungo, estasiato momento mi sono fermato sull’alto
della scalinata per riassaporare felice quell’atmosfera unica, poi ho
sceso trepidante la scalinata e mi sono immerso nella città.
Ho preso a camminare tranquillo, anch’io foresto tra foresti, come mi
sentivo almeno un poco dopo una così lunga assenza, in mezzo a tanta
gente, in un’armonia un poco babelica di lingue diverse.
Ho ben presto voluto riassaporare il piacere sottile di imboccare calli
discrete, ombrose e nascoste. Ma come è spopolata Venezia, non la
ricordavo così vuota, ho subito pensato di fronte a una realtà palese. E
infatti è bastato che, alla ricerca delle amate callette, abbandonassi
per un poco i percorsi più noti e battuti dai turisti, perché subito
intorno a me percepissi quasi un vuoto preoccupante di presenza umana.
Ma quanta cacca c’è in questa Venezia, mi sono anche trovato ben presto
a pensare di fronte a un’amara evidenza.
Subito mi si è presentato un arduo dilemma, assai difficile da risolvere
per un camminatore infaticabile come me e curioso di scoprire sempre nuovi
scorci e deliziosi dettagli.
Se uno cammina con il naso all’aria per ammirare e scoprire le tante,
innumerevoli, bellezze di questa mirabile città, ho riflettuto, non può
certamente guardare tanto spesso per terra. Se invece cammina con il naso
fisso a terra al fine di evitare certi incontri sgradevoli, si lascia
evidentemente sfuggire quanto merita di essere scoperto e ammirato.
Uno, ho anche riflettuto, potrebbe forse decidere di stare fermo con i
piedi ben poggiati su un posto sicuro, ma allora quel tale non andrebbe da
nessuna parte, la conclusione è ovvia.
E dunque, se uno guarda a terra, non vede la città, se guarda la città,
non vede dove poggia i piedi. Ecco, mi sono allora messo a considerare, un
camaleonte molto probabilmente ci riuscirebbe, e senza gravi difficoltà,
visto che può muovere gli occhi uno indipendentemente dall’altro, e
perciò può nello stesso tempo guardare a terra, dove poggia le zampe, e
guardare in giro e deliziarsi delle bellezze palesi e da scoprire di
questa città unica. Ma forse, ho concluso ridacchiando in sordina, ché
non mi si prendesse per uno scemo, i camaleonti non girano per le calli di
Venezia.
A volte poi, ho ripreso perplesso, ti trovi a camminare in mezzo a tanta
gente che vaga distratta, e allora è la folla stessa che ti impedisce di
controllare dove poggi i piedi, e così ce li ficchi bellamente dentro e
diventi un colpevole inconsapevole di spargerla per un lungo tratto. E
quando invece uno ne è consapevole? Ovvio, cerca di ripulire la suola
incriminata e contaminata strisciandola per bene a terra, ecco allora
perché si vedono certe lunghe strisciate lordanti su queste tanto famose
e celebrate pietre di Venezia. Chissà, mi sono chiesto, riportando alla
luce un lontano ricordo scolastico, se anche all’epoca di John Ruskin la
situazione era analoga a questa, se anche allora un simile flagello era
così diffuso.
E subito dopo la reminiscenza scolastica, ho rivisto con gli occhi della
mente e con un senso fastidioso di nausea i molti turisti che, non
abituati a camminare tanto a lungo, con i piedi distrutti da scarpe
inadatte a un prolungato andare per calli, campielli e ponti, toglievano
con un sospiro di sollievo le scarpe e si mettevano a camminare a piedi
nudi, ridendo felici, assolutamente inconsapevoli o incuranti di quanto si
può trovare, e calpestare, sulle famose pietre di Venezia.
Uno pensa, mi sono detto, se giro per le calli più strette, scure e
nascoste, lì, è evidente, si cela l’insidia invisibile, e allora, per
evitarla, me ne vado a zonzo per i campi ariosi e soleggiati, per le vie
larghe, lungo le fondamente. Macché! ingenuo che non sei altro, mi sono
risposto, lì pure si trova l’onnipresente lordante, non hai scampo
neppure lì dal flagello.
Nelle altre città tutti girano in automobile, i pedoni sono rarissimi, e
così ben pochi davvero vedono quello che il loro cane o i cani altrui
hanno lasciato sui marciapiedi durante l’abituale passeggiatina igienica
diurna o, meglio, serotina che sia. E poi qualche siepe o qualche albero
compiacente offrono talvolta riparo e discrezione, e rendono più o meno
riposte e invisibili le deiezioni canine. Ben pochi pedoni nelle città di
terraferma corrono dunque il pericolo di incapparci. Ma qui a Venezia non
ci sono posti tacitamente deputati alla sporcizia canina e tutti
camminano, anche quelli che si servono dei mezzi di navigazione, e dunque,
perché meravigliarsi?
Tutti quelli che li possiedono, come è ovvio e giusto, amano i loro cani,
li viziano, anche se questo è forse un poco meno giusto, li coccolano, li
rimpinzano di buoni bocconcini che, evidentemente, una volta che l’intestino
ne ha estratto i nutrienti, escono sotto forma di scorie. È la prassi
normale seguita da un corpo vivente per nutrirsi e sostentarsi. E se l’animale
è grande e grosso, il deposto è direttamente proporzionale alla sua
taglia, oppure alla sua stazza, visto che mi trovo in una città di mare.
E però a un certo momento della mia lunga giornata in Venezia mi sono
quasi fermato in mezzo a un delizioso campiello per meditare perplesso su
un fatto curioso. Da un poco avevo cominciato a essere francamente stupito
per una realtà incontrovertibile, che sembrava confutare alle origini un
fatto accertato in questa mia nuova, breve e piuttosto manchevole
esperienza veneziana.
Per buonissima parte della giornata non avevo visto molti cani in giro.
Tra i pochi, solo al mattino ne avevo visto uno defecare, e la sua
proprietaria, un’anziana signora che camminava appoggiandosi stancamente
a un bastone da passeggio, si era subito chinata con una certa fatica per
raccogliere con un pezzo di carta quanto il suo cagnetto aveva deposto in
un angolino, e lo aveva gettato in un cestino della spazzatura. Ecco, mi
sono detto dopo aver recuperato da un recesso della memoria questa piccola
rimembranza, e riprendendo a camminare con passo normale, se non ho quasi
visto in giro cani sciolti o al guinzaglio, l’arcano delle scorie
diffuse è forse piuttosto semplice da svelare.
Ai ricordi canini nostrani lasciati in giro in ore tenebrose da padroni
maleducati, si sommano certamente i ricordi abbandonati in giro in ore
altrettanto tenebrose dai cani foresti portati a spasso da padroni
ugualmente maleducati di parlata diversa dalla nostra.
Il mio cervello, bellamente avviato sulla strada di queste meditazioni
quasi metafisiche, e di ciò chiedo scusa a Cartesio, a un certo momento
si è chiesto cosa mai succede di tanti ricordini lasciati in giro quando
il tempo è bello, asciutto e ventoso, quando dei refoli più energici
talvolta alzano una bella polverina, sicuramente molto igienica. Ma la
situazione non migliora certamente di molto quando piove, ho argomentato,
quando si formano piccole e grandi pozzanghere in cui tante cose si
accumulano e ristagnano e in cui si finisce fatalmente per sguazzare, e
allora i pantaloni si bagnano e impregnano per bene di acqua che non è
più soltanto piovana.
Intanto le ore della mia giornata,tra meditazioni e viste mirabili della
città, erano passate quasi inavvertite, la luce meridiana era scemata e
il tramonto si annunciava con i suoi primissimi e timidi rossori.
Proprio allora, quasi a fine giornata, di fronte a quella defecata e
lasciata là intatta e a quella già calpestata e portata in giro, ho
cominciato irragionevolmente a pensare che questo fatto deve essere
gravido di innumerevoli e complessi e reconditi significati, che ci deve
pur essere un fine ultimo ben determinato per questa realtà, anche se
sfugge all’umana comprensione ed è ignoto alla quasi totalità dell’umana
gente e comune. Ci deve essere un Superiore Piano Segreto, mi sono detto,
ma senza alcuna apprensione, che guida le azioni degli umani e che impone
la proibizione assoluta di ripulire. Ci devono essere, è assodato, celati
in grembo al destino, dei fini ultimi, certamente imperscrutabili ma
nobilissimi, ignoti a tutti, anche agli addetti ai lavori. Dopo tanto
riflettere, non avevo più dubbi, per me era un fatto ormai assiomatico
che ci deve essere un disegno preordinato e inconoscibile, che un destino
arcano deve reggere tutto questo, perché tutto, anche l’aspetto più
umile del vivere, ha una funzione importantissima nell’economia generale
dell’universo, e dunque, ho concluso, anche le deiezioni canine devono
averla.
E così, tra pensieri, meditazioni e lunga passeggiata circolare per la
città, interrotta soltanto dalla colazione del mattino, dal pasto di
mezzogiorno e dal caffè del pomeriggio, era per me giunta l’ora,
annunciata dalle prime ombre, di avviarmi verso la non lontana Stazione di
Santa Lucia, per salire sul treno che mi avrebbe comodamente riportato a
casa nel breve volgere di due ore circa, a scanso di eventuali, e sempre
possibili, ritardi.
Quando, un poco triste, ho rimesso piede sulla scalinata della stazione e
mi sono voltato per lanciare un ultimo sguardo e un mesto saluto alla
città, mancavano giusto venti minuti alla partenza del treno. Bene, ho
pensato, sarà più facile che trovi un bel posto libero a sedere, e mi
sono avviato al binario, ricordando di obliterare il biglietto prima di
salire in vettura. Sono salito in treno nell’ultima carrozza e le ho
risalite fino a trovarne una con il settore riservato ai non fumatori
semilibero, qui mi sono accomodato a mio agio con un profondo sospiro.
Subito il mio olfatto è stato oltraggiosamente assalito da un forte
odore, dapprima piuttosto fastidioso e poi francamente disgustoso.
Ho pensato che la pulizia delle carrozze lasciava molto a desiderare, ma,
sentito che il fetore andava aumentando, ho cominciato a guardarmi attorno
perplesso. Allora intorno a me ho scorto persone inquiete, che annusavano
l’aria a disagio e chiaramente imbarazzate. Ho visto alcuni visi in aria
un poco sorpresi e non poco schifati.
Uno dei passeggeri si era quasi subito alzato per spalancare un
finestrino, ma il problema sembrava irrisolvibile e il fetore permaneva. E
però ho cominciato anche a vedere tanti nasi girati verso la mia parte,
proprio verso di me, e già qualcuno parlava all’orecchio di chi gli
sedeva accanto e accennava verso di me, l’ultimo salito in carrozza.
Mi è allora venuto il sospetto che pensassero a me come fonte di quell’odore
pestilenziale, un sospetto assolutamente infondato e ingiurioso, visto
che, nonostante la mia età, ho ancora un controllo perfetto dei miei
sfinteri, eppure mi sentivo lo stesso a disagio e piutto- sto imbarazzato
di essere l’oggetto incolpevole della loro malevola e muta insinuazione.
A quegli sguardi insistiti e dopo che alcuni passeggeri avevano messo
piede nella carrozza e se ne erano immediatamente allontana-ti, un nuovo
dubbio si era fatto strada in me. Quel pessimo odore, di cui in un primo
momento mi era sfuggita l’essenza, era chiaramente diventato odore di
cacca e diventava sempre più forte e insopportabile, e mi sono chiesto se
non ne fossi per davvero io l’origine, viste le reazioni infastidite,
schifate e accusatorie degli altri passeggeri. Con una certa cautela ho
chinato la testa di lato e ho dato una sbirciatina alla suola delle mie
scarpe, e sono trasecolato.
Confesso che in quel momento ho sussultato per la meraviglia, la vergogna
e la costernazione. Ero allibito: la bella suola delle mie scarpe così
comode per camminare a lungo e senza problemi, la suola, ripeto, dalle
belle e profonde scolpiture era tutta piena di sozzume. Sono sceso in
tutta fretta dalla carrozza, sono corso via come un ladro scoperto in
flagrante delitto. Per fortuna ero salito sul convoglio con un largo
anticipo sull’orario di partenza e così sono riuscito a ripulire per
bene la suola delle scarpe e a risalire in tempo sul treno, in un’altra
carrozza ovviamente.
Sognare cacca, a quanto usualmente si dice, porta fortuna e ricchezza, e
ora devo confessare che la deve portare anche quando la si calpesta, e che
non importa affatto se è cacca di cane, perché quello stesso sabato sera
ho avuto la graditissima sorpresa di vincere una somma non indifferente di
denaro a un gioco notissimo.
E ora sono qui a chiedermi ansioso e pieno di speranza se anche il
prossimo sabato, dopo un giro su e zo per calli e ponti di Venezia, sarò
così gratificato da una sorte ammansita e resa benevola. |