Le nuove tendenze
Quando l’incisione sulla pelle è segno magico
a cura della redazione

Indipendentemente dal costo e anche dal fastidio (se non proprio dolore) moltissime persone, sia donne che uomini giovani e meno giovani, si sottopongono a lunghe sedute per avere e poi mostrare un bel tatuaggio da loro scelto in base ai propri gusti.
Non tutti però sanno che il tatuaggio è usato in molte parti del mondo da diversi secoli.


 

In Polinesia il tatuaggio era linguaggio primordiale, magico. Rappresentava un segno di distinzione sociale e spirituale decretata dalle divinità. Praticato originariamente nelle Isole della Società, dove raggiunse il suo più alto grado di perfezione, si diffuse in tutti gli arcipelaghi della Polinesia fino alla Nuova Zelanda. Secondo una leggenda tahitiana, la pratica del tatuaggio sarebbe opera di Mata Mata Arahu e di Tu Ra’i Po’, figli del dio Ta’aroa, i quali ricorsero al disegno chiamato Tao Maro per sedurre Hina Ere Ere Manua, figlia del primo uomo e della prima donna.

Secondo la tradizione il tatuaggio, che in Polinesia aveva carattere iniziatico e poteva incominciare intorno ai 12 anni, era prerogativa delle classi sociali più elevate: quella dei sacerdoti; dei capi (uomini e donne); dei capi guerrieri, danzatori e rematori; delle persone senza ascendenza ereditaria notevole.
La sua funzione non era soltanto decorativa, ma soprattutto finalizzata all’attrazione sessuale (chi era più tatuato era preferito dalle donne), all’esaltazione della vita, all’aspirazione di diventare dèi.

Le tecniche dell’operazione erano affidate a un sacerdote tatuatore che era considerato il depositario di una tradizione da tramandare ai posteri. Rispetto ad altre popolazioni dell’Oceania che ricorrevano all’incisione del viso e del corpo con conchiglie o pietre affilate senza far uso di colore, i polinesiani usavano un tatuaggio molto più artistico, incidendo vari disegni sulla cute del viso e del corpo con finissime punte d’osso, sulle cui ferite versavano polvere di carbone di legna sciolta nell’acqua o del pigmento di natura vegetale. In questo modo la traccia dei “ricami” rimaneva colorata a seconda delle sostanze usate, e il disegno inciso diventava indelebile. Una lunga tortura a cui i guerrieri si sottoponevano stoicamente senza lasciar sfuggire neppure un lamento.

La parola polinesiana tatù, che significa foracchiare, dalla quale proviene il nostro vocabolo di tatuaggio, è sconosciuta nella lingua Maori. Questi ultimi davano invece il nome di Moko al tatuaggio che si facevano sul viso, e quello di Whakairo ai segni che si incidevano sul corpo.

Gli uomini erano i più tatuati mentre le donne lo erano solo sul mento, attorno alle labbra e talvolta sulle gambe. Tra i Maori la parola “papatea”, ovvero “viso liscio”, era espressione ingiuriosa e di scherno.
Nei tatuaggi del passato c’erano i famosi motivi spiraliformi caratteristici della Polinesia. Una varietà stupefacente di disegni a intrecci multicolori, realizzati con gusto quanto mai fine e aristocratico. Ancora oggi, cerchi, stelle, losanghe sono i motivi più usati in Polinesia insieme a decorazioni più recenti, mentre in Nuova Zelanda il tatuaggio rappresenta per molti Maori l’affermazione della propria identità culturale e il motivo di più profonde riflessioni tribali e spirituali.

I Maia perforavano la lingua per dimostrare la virilità ed il coraggio. Gli eschimesi e gli Aleuts hanno perforato le labbra degli infanti come componente di una purificazione rituale e il labbro più basso dei ragazzi come componente del passaggio alla pubertà. I materiali utilizzati erano pietre, ossa, o avorio. In generale, c’è stata una diminuzione in molte di queste pratiche culturali con l’introduzione dell’influenza cristiana. Ancora oggi, in alcune zone del terzo mondo, si praticano piercing orali che utilizzano l’avorio, il legno, le terraglie o il metallo con valenza religiosa, sessuale, tribale o coniugale. Ad esempio: la tribù di Surma usa piastre sul loro labbro inferiore; gli uomini sposati ed i vedovi della tribù di Suya del Brasile adornano il labbro più basso con dischi di legno verniciato; altre tribù portano le spine sul labbro o sugli anelli superiori nel labbro più basso. Qualche tribù in India del sud, perfora la lingua con uno spiedo per effettuare un voto di silenzio. I piercing ritualistici possono essere provvisori e possono durare soltanto delle ore.
Nella cultura occidentale corrente, la decisione di perforare è spesso una dichiarazione personale che rappresenta il modo di essere. Non è solitamente religioso, convenzionale, o tribale, ornamentale. Tuttavia, alcuni piercing messi in alcune parti del corpo quali i genitali e le labbra vaginali, sono usati allo scopo di aumentare lo stimolo sessuale.

Premetto che fra piercing e tatuaggi vi è una differenza abissale dal punto di vista biologico e premetto anche che il piercing non è una scelta di vita mentre il tatuaggio non è solo ornamento, comunque il tutto è soggettivo. Non mi sono mai posta il problema del fattore “definitivo” né tantomeno il fattore “ribelliamoci alla società”.
Al contrario di quanto ci si possa aspettare, l’avere sia piercing che tatuaggi ha fatto di me un elemento della massa giovane, che segue un trend prestabilito e indotto; averli mi ha permesso, inoltre, di intraprendere conversazioni più o meno interessanti con disparate categorie e fasce d’età, vuoi per curiosità, vuoi per disappunto, vuoi per aggregazione.
Non si può dare una spiegazione univoca per quanto riguarda le motivazioni che spingono persone di varie età, estrazione sociale ed etnie a farsi bucare la faccia e altre parti del corpo più o meno disdicevoli… immagino però che una delle motivazioni maggiormente inflazionate sia l’emulazione e il “desiderio di categoria” anche se, a ben vedere, lo stesso piercing, nella stessa parte del corpo, lo si può ritrovare in persone dalle caratteristiche più disparate.
E’ un filone della moda? Il momento culturale? Sì, è questa la motivazione principale, anche se quasi tutti i possessori di piercing se ne discostano e snocciolano questioni che spaziano dal credo musicale al valore simbolico. A mio avviso non si può conciliare il farsi sparare un gioiello in faccia con una scelta di vita, senza contare che la durata media di un piercing è di quattro – cinque anni, dopodiché ci si annoia e semplicemente lo si elimina alla ricerca di qualche altra innovazione estetica.
Elemento transitorio dunque, che nel mio caso specifico è stato fatto per puro sfizio. Tatuaggi? Due. Voluti e amati. Il tatuaggio adesso è davvero moda ma, fortunatamente, è soprattutto arte. E come tutta la vera arte non tutti hanno la capacità per crearli, la sensibilità per desiderarli, e fortunatamente hanno l’intelligenza per capirne l’unicità. L’unicità del tatuaggio è dell’individuo che lo porta. Mi auguro che possa rimanere sempre così. Non capisco i tatuaggi presi da catalogo, come non capisco i tatuatori che si atteggiano da gran maestri ma lo fanno per lavoro. La passione non centra.
Qui si tratta di essere talmente tanto presuntuosi da poter scegliere chi tatuare e chi no, cosa tatuare e cosa no. Non si può tatuare per lavoro. Il tatuaggio è una scelta di vita e non tutti, mi riferisco a chi ne ha e a chi ne fa, sono in grado di comprendere.
Come ho detto in precedenza, non mi sono mai posta il problema di un futuro pentimento al riguardo, ci sono altre cose che rovinano per sempre e sono però, a tutti gli effetti, il ricordo perenne di te.

Testimonianza gentilmente concessa da Erika, una giovane ragazza mestrina, alla quale va il nostro ringraziamento.