“La democrazia è stata dunque abbandonata ai suoi istinti selvaggi; essa è cresciuta come quei bambini che, privi delle cure materne, crescono da soli nelle strade delle nostre città non conoscendo della società che i vizi e le miserie (...) il risultato è che la rivoluzione democratica si è effettuata nella materia della società, senza che si operasse nelle leggi, nelle idee, nelle abitudini e nei costumi il cambiamento necessario per renderle utile. Così abbiamo la democrazia senza avere tutto ciò che dovrebbe attenuarne i vizi e farne risaltare i naturali vantaggi;
e alla vista dei mali da essa prodotti non ci rendiamo conto
dei beni che può darci.”
(Tocqueville, La democrazia in America)
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Michela Bernardi, dell’Associazione “Alessandro Biral”, nel presentarci il suo libro: Stato sociale e libertà politica in Tocqueville, ci racconta che esiste un filo diretto tra il suo lavoro (a suo tempo presentato come tesi di laurea) e l’insegnamento del professor Alessandro Biral, suo insegnante e relatore: Biral svelava la realtà attuale senza esporre teorie, mostrando luoghi comuni che scontati non sono. Il lavoro di Alessandro Biral richiedeva pazienza e passione. L’intenzione di Michela era quella di approfondire il mondo della democrazia italiana confrontandolo con i principi di uguaglianza e libertà (teoria per eccellenza), ma tale metodo risultava ideologico ed astratto. Biral invece la invita a leggere Tocqueville (autore spesso frainteso perché si muove in una prospettiva che si scontra con le tradizionali interpretazioni storiche che la modernità ha della politica). E’ per questo che si immerge nello studio dei testi dell’autore francese ed in particolare del saggio La democrazia in America e successivamente L’Antico regime e la Rivoluzione, quindi studia autori come Otto Brunner e altri contemporanei interpreti di Tocqueville. La dimensione politica appariva immediatamente lotta fra gli uomini per la difesa di interessi diversi (compresa la competizione elettorale) All’interno delle democrazie improntate sul concetto di uguaglianza e libertà (e quindi di felicità) emergono invece differenze a volte dolorose e persine violente, non corrispondenti al concetto di Polis basata sull’amicizia.
Tocqueville, profondo conoscitore di uomini, mostra che la democrazia non è una forma di governo, ma condizione sociale, all’interno della quale si manifestano le abitudini e le passioni degli uomini democratici. Essi non hanno una chiara visione della realtà e la democrazia si risolve in una “espressione di un modo di vita” Essi si trovano al buio e, proprio perché pretendono di spiegare il mondo unicamente con la ragione, perdono, in questo modo, la consapevolezza di sé. Tocqueville è convinto che proprio l’atteggiamento democratico fa rimanere l’uomo all’interno della caverna platonica: Egli, che non ama i libri, preferisce guardare le cose vive, senza mai elaborare teorie (come Biral). L’autore francese vede, paradossalmente, proprio nella democrazia il rischio della perdita inconsapevole della libertà da parte dell’uomo col pericolo di divenire addirittura schiavo; insistere sulle idee astratte, infatti, potrebbe comportare un oscuramento del pensiero e produrre l’incapacità di cogliere la vita di noi stessi. Occorre osservare oltre, per vedere le vere caratteristiche degli uomini e per prendere da essi il meglio. Senza essere un conservatore egli sostiene che non sono state le rivoluzioni a portare l’uguaglianza, semmai esse l’hanno “giustificata”. Il XIII secolo, infatti, sanciva la venalità delle cariche pubbliche e produceva quindi la vendita dei titoli nobiliari, con conseguente sconvolgimento dell’ancien regime: I ceti per nascita implicano un modo di essere, un’umanità distinta per classi. I diversi ceti interagiscono; costituiscono diverse parti, ma interdipendenti; anche all’interno della famiglia esistono le differenze che, insieme, costituiscono un tutto anche quando i cuori entrano in contatto ma non s’intendono, convivendo necessariamente nelle loro dipendenze. Tali rapporti si dissolvono con la vendita delle cariche nobiliari e con la nascita del “lavoro”. La divisione della terra tra i figli (terra che costituiva identità) diventa insufficiente alla sopravvivenza e porta l’uomo dall’essere al dover fare: per sopravvivere occorre dunque lavorare. Il lavoro fa perdere la propria identità, esso costituisce il mezzo per raggiungere la ricchezza che diviene fine ultimo. Si forma allora la piccola società (individualistica) che fa dimenticare la grande società con la conseguenza di porre in serio pericolo la nostra libertà producendo una reciproca estraniazione. La società si trova allora ad essere organizzata sulla base delle ricchezze: La stessa scuola viene vista come opportunità per raggiungere la ricchezza, tanto che la “sapienza” risulta essere uguale all’ignoranza; ignoranza così attualmente presente e, per certi versi, così diffusa, forse più che nei secoli passati caratterizzati dall’analfabetizzazione.
Ecco allora che la caverna platonica potrebbe rappresentare, in qualche modo, la società democratica spezzata in ruoli espressi attraverso la specializzazione del lavoro; l’uomo che lavora non esprime la persona nella sua interezza ma soltanto una parte di se; egli eccelle, infatti, in una parte, e pur vivendo all’interno della società, non ne fa integralmente parte. Quando esprime veramente se stesso, in tale contesto, rischia addirittura di andar “fuori legge”. Ma il fatto più grave è costituito dalla difficoltà di comprendere noi stessi, tanto che spesso usiamo categorie e “concetti teorici” per autodefinirci, rischiando, perciò, di scorgere soltanto le ombre piuttosto che la realtà.
Tocqueville sostiene che i diritti stessi che, noi, per abitudine, diamo per scontati, possono divenire “dogmi” (per esempio: il diritto di uguaglianza assunto come valore assoluto). Tale diritto potrebbe rappresentare esso stesso una “teoria” in quanto derivante dalla elaborazione della ragione piuttosto che dalla vita. Se ci siamo trovati uguali, non dovremmo quindi enfatizzare tale condizione, ma piuttosto cercare di comprenderla, attraverso una rigorosa analisi storica.
L’autore annota come la religione in America abbia svolto un’importante funzione; in particolare egli osserva che il “puritanesimo” ha agevolato la formazione ed il mantenimento dello Stato democratico.
Michela Bernardi, concludendo la propria relazione, ci presenta una visione non ottimistica in quanto la democrazia consente una forma di partecipazione parziale attraverso categorie e concetti che spesso rischiano d’essere vissuti come dogmi, piuttosto che come “verità” guadagnate dalla vita, producendo, di conseguenza, una dicotomia o un contrasto tra i principi e la vita stessa.
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