1 - Etty Hillesum

2 - Frankl Victor Emil

3 - Dietrich Bonhoeffer

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Mario Meggiato

 

La saggezza nel lager
Tre incontri con Michela Bernardi e Livio Locatelli


“Occorre rovesciare i concetti radicati”
(Livio)

“nessuno diventa sapiente
per merito della sapienza altrui”
(A. Biral “Platone e la conoscenza di sé” )


1° Incontro del 7 febbraio 2013 su Etty Hillesum

Livio ci fa ascoltare il canto inquietante degli uomini che si accingono ad andare nel forno crematorio … quindi:
Michela ci parla della saggezza e la definisce “il saper agire da distinguere dal sapere teorico imparato magari sui libri”. Un sapere dunque che è tutt’uno con la vita quotidiana.
Il saggio, infatti, non racconta i libri ma esprime se stesso vivendo; Michela, allora, ci parla di una ragazza Etty, cuore pensante della baracca, nata nel 1914 che ci racconta la sua vita vissuta e terminata ad Auschwitz (Polonia), attraverso il suo diario, consegnato ad un’amica, prima di salire sul treno, che la condurrà alla morte.
Si tratta di una donna che vivrà la guerra ed il presentimento dell’odio e della distruzione che essa inevitabilmente produrrà.
E’ una ragazza colta, laureata in giurisprudenza ad Amsterdam, appassionata di psicologia, con legami familiari molto forti, con genitori e fratelli altrettanto colti ed intelligenti.
Il diario, che ha inizio nel 1940, racconta la sua relazione con cinque persone diverse per cultura e per esperienze che produrrà inevitabilmente anche conflitti; ben presto, però, Ester (questo è il vero nome della donna) si rende conto che occorre vivere bene all’interno di una comunità, fatta anche di differenti persone portatori di idee diverse.
Capisce, in particolare, che l’odio non favorisce una buona convivenza; coglie le differenze e, da buona psicologa, le osserva e le registra, quasi con distacco.
In questa occasione conosce uno psicologo, dotato di notevole carisma; se ne innamorerà soprattutto perché scorge in lui l’uomo sempre ben disposto nei confronti dei più deboli; ne rimarrà incinta ma non farà nascere il bambino il quale, a suo dire, dovrà esserle grato (per non essere venuto alla luce) in quanto gli è stata risparmiata la valle di lacrime.
Il diario di Etty ci mostra soprattutto il suo viaggio interiore, la sua chiarezza intellettuale, la sua capacità di leggere le anime degli altri, ma altrettanta difficoltà di fare chiarezza su sé stessa; dal racconto ci appare coraggiosa, ma ella stessa confessa di non esserlo.
Sarà ben difficile guadagnare quella armonia in un ambiente di odio, di indicibili sofferenze e di morte.
Tuttavia Etty riuscirà a vivere la tragicità dell’esistenza a partire da sé, guadagnando, paradossalmente, autonomia proprio nella condizione di prigioniera e, successivamente, di condannata a morte; riuscirà a realizzare un lavoro di pulizia nella propria anima, proprio allorquando assumerà consapevolezza che il suo dolore e la sua paura non appartengono solo a sé stessa ma, in quel contesto, risultano essere universali.
A partire da questo momento tratterrà per sè l’essenziale assumendo, quindi, un atteggiamento più semplice, evitando di farsi influenzare da fattori esterni, evitando, altresì, di fare rigide distinzioni d’ordine morale tra buoni e cattivi, ebrei sempre e comunque buoni e, tedeschi sempre e comunque tutti cattivi.
Capisce che occorre osservare, di volta in volta, il comportamento umano, senza mai vedere negli uomini e nelle donne che incontra rigide categorie sociali, ma uomini e donne unici ed irrepetibili; la tragicità della guerra e la sua particolare condizione allora le apparirà meno dura anche perché, sia pur da bambina, aveva conservato il ricordo delle conseguenze della prima guerra mondiale.
Ella, comunque, attraverso il proprio dolore, riesce a guadagnare, pur con le proprie contraddizioni, il superamento dialettico del dolore medesimo; riesce, cioè, a mettere a punto il dolore e la propria paura; realizza che vita e morte sono necessariamente complementari; paura che appunto riesce, alla fine, a superare per sé stessa, ma soffre infinitamente per la medesima sorte riservata ai suoi cari. Etty prova a rimuovere dolore e paura prestando attenzione anche nei confronti degli altri ed in particolare rispetto alle sue più giovani compagne di sventura. Sui valori, quali verità ed altro, Etty non è relativista; si indigna rispetto alla sua condizione e sulla tragica prospettiva, che da subito, aveva intuito.
Vi è in lei la completa consapevolezza della morte che le spetta; rifiuta, pertanto, alcuni privilegi riservati alla sua classe sociale e deciderà di salire, come tutti gli altri, su quel treno che la condurrà alla morte.

Si sente, però, in dovere di raccontare e lo farà consegnando, appunto, il suo diario ad un’amica che si salverà.


 

“Se non è nelle tue mani cambiare una situazione che ti produce dolore,
sempre potrai scoprire il modo con cui affrontare la sofferenza.”

“La morte come fine del tempo che si vive può causare paura
soltanto a chi non sa impiegare il tempo che gli è dato da vivere.”

“La vita impone ad ogni individuo un contributo e dipende dall’individuo scoprire in che cosa consiste.”

(Frankl Victor Emil)

2° incontro del 14 febbraio 2013 su Frankl Victor Emil

Michela ci ricorda che nel precedente incontro (7 febbraio) ci ha presentato il diario di Etty, ragazza olandese internata e poi inviata al forno crematorio di Auschwitz; questa sera ci parla, invece, di un medico austriaco internato in campo di sterminio, ma sopravissuto; si tratta di Frankl Victor Emil che si salverà e potrà quindi raccontare la sua tragica esperienza.
In sostanza ci troviamo davanti a percorsi diversi: Etty, infatti, ha dinnanzi a sé una sfida dalla quale non può sfuggire ma la sua condizione le procurerà, comunque, la possibilità di compiere quel percorso di crescita che finirà con la morte; il medico invece, non resterà schiacciato e la sua esperienza, all’interno di quella realtà, costituirà un bagaglio importante per la sua attività di medico e studioso affermato, utile alla sua professione.
Attraverso la sua esperienza potrà sviluppare un resoconto sul comportamento dei suoi compagni di sventura caratterizzato da una condizione di estrema miseria sia fisica che morale.
Nessuno potrà mai capire questa condizione se non viene personalmente vissuta. Egli non si accontenta di osservare, con occhio clinico, impersonale, da scienziato moderno ed oggettivo, ma privilegia l’attenzione verso l’ uomo e la sua esperienza potrà essere utile, in prospettiva, per curare, meglio per salvare coloro che soffrono.
Riuscirà, in sostanza, a non essere travolto da quella tragica esperienza. Lo scienziato non potrebbe capire oggettivamente quella esperienza se non l’avesse personalmente vissuta ed osservato dettagliatamente la vita dell’internato.
Questo medico vissuto in quattro diversi campi ha fatto esperienza dei relativi trasferimenti in treni ammassati, dove le persone non potevano né muoversi né mangiare o bere e, quel che è peggio, senza conoscere la destinazione.
All’arrivo i deportati venivano selezionati sulla base di un numero: chi direttamente alle camere a gas(il 90%), chi destinati ai campi di lavoro. In quella tragica condizione cercavano, comunque, un segno positivo di speranza.
L’autore definisce delirio di grazia l’atteggiamento di stupore e di curiosità che invade l’internato e che gli consente di resistere anche in condizioni impossibili; nessuno si ammala nemmeno dopo essere sottoposto a doccia fredda e, quindi, essere esposto all’esterno a temperature quasi invernali.
Il medico è costretto ad ammettere perciò che i libri di medicina mentono. Rispetto agli assurdi patimenti inflitti dagli aguzzini, appositamente selezionati, il medico registra una condizione di apatia, un atteggiamento cioè di indifferenza, di insensibilità, ma soprattutto di mancanza di volontà; sembra quasi che l’organismo innalzi uno schermo, una barriera e che annulli il dolore.
Ciò che sembra essere necessario, in quella condizione, è mettere in atto soltanto ciò che garantisce la sopravvivenza, in primis la possibilità di mangiare,all’apatia si accompagna l’abulia che fa regredire, che rende l’uomo allo stato primitivo, che lo priva della propria dignità.
L’uomo di scienza focalizza la sua attenzione sulla vita dell’internato medio. L’assurdità delle punizioni inflitte, senza una razionale motivazione, produce, istintivamente, una mutazione della personalità uccidendo ogni interesse superiore e annulla ogni moralità.
Frankl ammette che l’uomo non è mai libero; egli è sempre condizionato dall’ambiente in cui si trova a vivere, ma esiste la libertà di rispondere alle richieste che la vita continuamente ci pone; le risposte che ciascuno di noi può allora dare avviene attraverso il recupero della nostra interiorità, assumendo consapevolezza della propria unicità, ma questo è possibile solamente attraverso la relazione con i nostri simili: non vi è identità se non nella relazione e nel confronto.
A lui, personalmente, ciò che gli ha consentito di resistere a tanta sofferenza e disperazione è stato il costante pensiero rivolto alla propria moglie e l’affetto che per lei aveva e, contemporaneamente, l’attenzione nei confronti dei propri compagni di sventura.

Frankl Victor Emil, psicoterapeuta austriaco (Vienna 1905-1997).

In corrispondenza con S. Freud e poi con A. Adler, si specializzò in neurologia e psichiatria. Dal 1942 al 1945 fu internato come ebreo in vari lager nazisti, nei quali notò che meglio riusciva a sopravvivere chi aveva fede in qualche valore (Uno psicologo nei lager). Egli è fondatore dell’indirizzo di psicoterapia detto logoterapia, perché basata sul dialogo ed il ragionamento con il paziente, presuppone che la salute psichica dipenda dalla coscienza di un significato della vita e dal perseguimento di esso. Il dialogo terapeutico mira pertanto ad indagare in termini di valori e di finalità i problemi di fondo dell’esistenza del soggetto, anziché insistere sulla scoperta dei desideri inconsci e delle dinamiche pulsionali, come invece la psicologia di Freud: (Alla ricerca del significato della vita 1972).


 

“Non c’è praticamente sensazione che renda più felice dell’intuire
che si è qualcosa per le altre persone.
In questo, ciò che conta non è il numero, ma l’intensità.
Alla fine, le relazioni interpersonali sono senz’altro la cosa più importante della vita.
Nemmeno il moderno uomo può modificare questo fatto,
e neppure i semidei o i folli che nulla sanno delle relazioni interpersonali.
Io mi riferisco al fatto puro e semplice che nella vita
gli uomini sono più importanti di qualsiasi altra cosa.
Ciò non significa affatto disprezzo del mondo delle cose e delle prestazioni pratiche.
Ma cosa sono per me il libro, il quadro, la casa, la proprietà più belli, di fronte a mia moglie, ai miei genitori, al mio amico
Così, d’altra parte, può parlare solo chi nella sua vita abbia trovato veramente delle persone.”

(Dietrich Bonhoeffer)

“La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto.”

(Hannah Arendt)

3° incontro del giorno 28 febbraio 2013 su Dietrich Bonhoeffer

Michela, dopo averci parlato, nei precedenti incontri di Etty, ragazza olandese ebrea, finita nei forni crematori e di Frankl Victor Emil, medico austriaco, invece sopravvissuto, ci parla, ora, di Bonhoeffer, pastore luterano tedesco, dalla complessa personalità, che, comunque, finisce tragicamente: egli, infatti, con l’avvento del nazismo, dapprima si trasferisce in America, quindi, ritorna in patria, partecipa all’attentato a Hitler; attentato che fallisce; Bonhoeffer viene, assieme ad altri preso, imprigionato e quindi impiccato.
Questo pastore ha un suo modo particolare di interpretare la fede; la fede, infatti, deve essere vissuta in modo profondo, ma non soltanto in forma interiore, ma soprattutto nel mondo, tanto che ”i cristiani che stanno sulla terra con un solo piede, staranno con un solo piede pure in Paradiso”; occorre, in altre parole, guadagnare la propria interiorità, senza, però, assumere un atteggiamento di chiusura nei confronti del mondo, ma sapersi assumere anche le proprie responsabilità, conservando la necessaria attenzione nei confronti del prossimo, non per obbligo ma riconoscendo che questa è la giusta strada.
Questa testimonianza appare attraverso la lettura delle lettere scritte in carcere prima di essere giustiziato, ma soprattutto dalla sua coerenza esistenziale.
Esiste un filo conduttore che lega le esistenze di queste tre persone; essi non sono dei teorici, ma le loro parole si incarnano in vissuti ed esperienze uniche e irripetibili; la loro saggezza non è fatta di formule: è, piuttosto, come un vestito fatto su misura che si adatta solamente a quelle specifiche persone; tuttavia, mai soggettiva, singola e priva di comunicazione. Si tratta quindi di una saggezza politica che presuppone convivenza e incontro l’uno verso l’altro; questo atteggiamento presuppone un sapere che si fa nutrimento per l’altro; inoltre la saggezza è sempre e comunque legata all’agire, al nostro essere e mai legata alla teoria.
I nostri tre hanno piena consapevolezza del periodo storico che stanno vivendo e le loro scelte sono sempre determinate; essi non fuggono né da sé stessi, né dalla realtà; non per questo essi reputano se stessi saggi; usano, paradossalmente, la possibilità di scelta proprio quando questa sembra oggettivamente essere loro preclusa.
Essi dimostrano di aver la forza di andar oltre proprio dinnanzi al limiti che vengono loro posti scientificamente.
E’ forse la loro cultura che li aiuta in queste scelte? Vi sono uomini che, seppur dotati di modesti strumenti (privi di cultura scolastica), riescono a fare scelte altrettanto coraggiose? Il sapere a quale uso si presta?
Come si può conciliare saggezza, lager e libertà?
L’uomo è sempre e comunque libero anche quando l’ambiente, la classe sociale di appartenenza gli pone limiti; egli può essere schiacciato e magari autoassolversi dai condizionamenti oppure può reagire .
Michela, a questo punto, cita Hegel il quale sostiene che è la storia a decidere, ma cita anche Montesquieu e Hannah Arendt, donna straordinaria, anch’ella ebrea costretta ad emigrare, prima in Francia, poi negli Stati Uniti e sarà quindi corrispondente durante il processo ad Eichmann.
In quella occasione seguirà il processo senza pregiudizi osservando l’uomo normale, burocrate esecutore di ordini che lo rende disumano .
La Arendt non processa, ma riflette e fa riflettere; se siamo determinati siamo legittimati a condannare?
Si presenta immediatamente la contraddizione che fa apparire l’inutilità dei tribunali.
Noi, contemporanei, non troviamo risposte a tanta crudeltà e freddezza se non nella capacità di distinguere, in modo chiaro e netto, tra bene e male, tra fini e mezzi.