di Mario Zampierin
SOFIA e POLIS
FILOSOFIA PARTECIPATA
“SOFIA E POLIS ”
Pratica filosofica e agire politico
Ho seguito attentamente il filosofo S. Zampieri e ho preso nota degli argomenti trattati che qui di seguito espongo.
Dopo una breve presentazione, e prima di iniziare a dibattere, S. Zampieri (d’ora in avanti Stefano, vista la sua cordiale predisposizione al dialogo, e non certo per eccesso di confidenza) acconsente a fare domande in qualsiasi momento della sua esposizione, noi ne approfittiamo e il tempo passa velocemente, trasformando il suo argomentare in una vera e propria discussione fra professore e allievi; in sintonia quindi, non casuale, con lo stile delle lezioni del prof. Stoppani che lascia sempre un abbondante spazio riservato al dibattito, anche su argomenti scritti dai corsisti.
Argomenti trattati nel “dialogo”
● “Sofia e Polis”, significa sapienza nella città, intesa come “citta stato” dell’antica Grecia.
Precisamente significa pratica filosofica, cioè pratica della conoscenza che nasce e si concretizza nella città, come agire politico, cioè tutti assieme, accomunati da uno stesso intento, il bene della “Città” (che è oggi la “nazione europea”).
Questo non significa, come ha precisato Stefano, il ritorno alla Polis. Il modello della “città stato” dell’antica Grecia è improponibile oggi, quella è stata una realtà che non potrà mai più riemergere. Sono cambiate molte cose da allora, ma è proprio per questo motivo che oggi ci troviamo qui a discutere di cosa significa adesso conoscenza nella società.
Stefano dice che, nella società odierna tutti sono chiamati alla partecipazione, a costruire insieme, attraverso il dialogo che sia confronto delle idee che si fondano sul rigore del pensiero, che non esclude, anzi favorisce, la critica costruttiva. Da questo contesto, prosegue Stefano, non vanno esclusi settori determinanti quali: la scuola, l’università, la ricerca, l’economia ecc..
Nella sostanza, per il filosofo fare filosofia significa praticare la conoscenza non ristretta in gruppi di sapere per il sapere, ma con gli altri, il cui orizzonte d’azione non deve escludere nessuno e nessuna questione, giacché la filosofia, per sua natura, è deputata a occuparsi di tutto, difatti cosa non può interessare la “Polis”?
● Stefano, a questo punto del dibattito, inserisce una frase che è di monito e incitamento al tempo stesso, indirizzata all’ambiente scolastico: “Perché non si parla di politica a scuola? Trattare la politica, con dovuta proprietà, anche a scuola non è vietato”, anzi è consigliato. Io sono perfettamente in sintonia con il suo pensiero, perché la politica decide del destino di noi tutti, quindi, più precisamente, non è solo consigliato interessarsi (fare) di politica, è invece un dovere di tutti praticare la politica. Sempre la politica ha deciso sul grado di sviluppo di una società. Dalla politica dipende, la libertà di un popolo, ma più in generale, il “welfare state”, lo stato del benessere sociale dipende dalla politica. La sanità pubblica e privata può funzionare meglio se la politica sa adottare i giusti provvedimenti. L’economia - motore trainante di una nazione - che genera la ricchezza del Paese, il PIL (prodotto interno lordo), se ben governata dalla politica può essere fonte di una più equa ridistribuzione del reddito, diminuendo la povertà e tra le altre cose, il conflitto sociale. Insomma la politica ci-entra dappertutto (è come il prezzemolo in cucina), quindi, questo è il messaggio, bisogna sempre in ogni momento partecipare attivamente alla vita politica. Bisogna, inoltre, esercitare il controllo su chi ci governa perché, e i fatti lo dimostrano, se non partecipi attivamente, se deleghi senza controllare succede che poi la politica diventa corrotta, e allora per quel paese sono guai seri.
● La filosofia può avere anche una funzione terapeutica, vale a dire di aiuto ad affrontare i problemi sociali dei giorni nostri; e può altresì avere compiti di consulenza individuale, affrontando e discutendo i disagi di carattere esistenziale, i problemi che riguardano il lavoro, i rapporti interpersonali, il passaggio alla vecchiaia, quindi una filosofia a tutto tondo, in cui il filosofo diventa altresì esperto di vita.
● Stefano fa poi l’esempio di Socrate, filosofo a trecentosessanta gradi, che praticava la filosofia non in luoghi privati, ma all’aperto, alla luce del sole includendo tutti. Con il suo proverbiale “so di non sapere” Socrate intendeva “un’ignoranza” che esclude l’abbandono della conoscenza, anzi proprio perché so di non sapere devo maggiormente cercare il sapere, anche come consapevolezza che nessuna conoscenza può considerarsi definitiva. Socrate incitava la gente a riflettere sulle cose a non dare mai niente per scontato, tutto può essere esercitato purché sia frutto di un pensiero che nasce dalla conoscenza e si sviluppa nell’interesse di tutti. Socrate amava anche dialogare con quelli che erano reputati sapienti, in particolare i politici. Dopo il confronto, afferma Socrate, questi politici, posti di fronte alle proprie contraddizioni (l’aporia socratica) e inadeguatezze, provavano smarrimento e stupore, apparendo per quello che erano: dei presuntuosi ignoranti che non sapevano di essere tali. “Allora capii, dice Socrate, che ero veramente il più sapiente, perché ero l’unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante. In seguito questi uomini che governavano la città, messi di fronte alla loro pochezza, presero a odiare Socrate”, poi sappiamo come finì la faccenda ….
● Propriamente la filosofia va intesa pure come agire politico. Stefano cita l’esempio delle primarie indette dal PD che tutta la stampa ha definito come una grande prova di democrazia. Ma è veramente stata una grande prova di democrazia? Certo, prosegue Stefano, chiamare al voto il popolo dei democratici è pur sempre una prova di democrazia, questo è fuori dubbio. Ma la vera democrazia (quella dove è veramente il cittadino a decidere, sopra i congressi, o le segreterie dei partiti che a porte chiuse decidono chi deve essere votato) prevede che nelle sedi dei partiti, le liste dei candidati siano espressione del libero confronto. In quest’occasione è quindi venuto meno il pensiero filosofico che ispira e dà forza alla politica. È mancato nella sostanza, il motivo conduttore che caratterizza la politica, decidere insieme.
● A questo punto, Stefano, per completare l’esposizione sull’agire politico, parla delle origini della politica moderna, che a cominciare da Macchiavelli, condizionerà tutta la filosofia moderna, mentre con Hobbes nascerà un nuovo modello contrattuale.
Dobbiamo arrivare all’età moderna (circa tra il 1500 e 1600) perché è proprio in questo periodo che cambia il modo di concepire le costituzioni. Cadono quindi le idee del vecchio modello costituzionale greco sostenuto da Platone e Aristotele, perché si pensa che siano privi di concretezza.
Machiavelli
Machiavelli (1469 - 1527) afferma che non è più possibile sostenere una costituzione ottima, bisogna accontentarsi di una costituzione efficace. Pertanto nell’età moderna tutti incominciano a far proprio il concetto di possibile. Ogni stato d’ora in poi sarà alla ricerca non dell’ottima costituzione, ma di quella possibile. La stessa concezione di stato ideale svanisce sotto il naufragio della ragione critica sopraffatta da un modo di pensare sempre più ristretto, particolaristico che impedisce l’orientamento verso il futuro, questo è Machiavelli.
Hobbes
Hobbes nel Leviatano (1651) afferma che la società civile accetta il dominio incontrastato del sovrano, senza limiti di sorta, in cambio della pace sociale; perché l’uomo, mosso dalle passioni (confronto tra forze opposte), sua unica vera natura, sarebbe spinto a un eterno conflitto. Nella sostanza afferma Hobbes, l’uomo nasce libero, ma la sua libertà è continuamente messa in pericolo dalle sopraffazioni altrui. Il modo migliore di risolvere questo problema è di arrestare le lotte fratricide cedendo la libertà a favore del dominio incontrastato del sovrano. Così si formano delle società stipulando un contratto sociale, chiamato Patto di Unione, che è composto dal Patto di Società e dal Patto di Assoggettamento. Il Patto di Società sancisce la nascita della civiltà mentre il Patto di Assoggettamento stabilisce che ciascun individuo rinunci al proprio diritto originale (su tutto e su tutti) e lo ceda a un terzo (il Sovrano) verso il quale è obbediente.
Conclusione
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Infine Stefano dice, oggi è accaduto qualcosa, questo contratto non funziona più. Il singolo cittadino sente che il patto ha perso la sua caratteristica di sicurezza. Il re, lo stato, non è più in grado di soddisfare la clausola contrattuale fondamentale che legava il cittadino alle istituzioni. Vien meno, oggi, la sicurezza economica, con conseguente ricaduta sullo stato sociale dei cittadini, cade il concetto di legalità (tempi troppo lunghi delle sentenze), aumenta la precarietà del lavoro, sono sempre maggiori i tagli allo studio, alla ricerca, non ci sono risorse (o non si vogliono trovare) per invertire il ciclo economico, e molte altre cose ancora.
Difatti l’avvento della globalizzazione dei mercati ci ha reso tutti più vulnerabili. La perdita delle sicurezze deriva dalla concorrenza spietata che la globalizzazione (che all’inizio avrebbe dovuto risolvere i problemi di tutti) ha portato con sé, trasformando il mondo in un grande mercato, annullando tutte quelle possibilità di rilancio economico che gli stati nazione avevano a disposizione per affrontare le crisi dei mercati. Oggi la globalizzazione c’impone grossi sacrifici economici per avere, a parità di spesa, forse la metà di quello che avevamo ieri. Perché per mantenere l’apparato burocratico dello stato, perché le istituzioni funzionino, bisogna che qualcuno ci presti i soldi, così dobbiamo ricorrere maggiormente all’indebitamento. Ma il costo del denaro, per il nostro paese che si trova in difficoltà con i bilanci, con il debito e con poca crescita economica, è sempre maggiore, e quindi la strada del risanamento finanziario e del conseguente rilancio economico diventa sempre più difficoltosa, questa è purtroppo la nostra situazione, e da questo dipende la mancanza di sicurezza che tanto ci angoscia.
Allora, sostiene Stefano (e questo è il succo di tutto il suo “dialogo”), il percorso per ritornare a quello che manca, alla sicurezza persa, deve scaturire dalla nostra volontà: come volere primario della nostra determinazione individuale, e come condizione esistenziale deve spingerci ad adottare quei comportamenti che favoriscono il cambiamento. A titolo esplicativo un comportamento che favorisca, per esempio, il rispetto dell’ambiente potrebbe essere quello di acquistare solo prodotti forniti da aziende che espongono sui loro prodotti il marchio di garanzia di rispetto delle norme antinquinanti. Oppure investire i nostri risparmi in azioni di aziende che rispettano l’ambiente, e producono le loro merci evitando lo sfruttamento della manodopera adulta e minorile. La Cina oltre allo sfruttamento del lavoro minorile, all’inquinamento ambientale, produce merci tossiche destinate anche ai bambini, e ha poco rispetto dei diritti umani, allora evitare l’acquisto di prodotti cinesi sarebbe un buon inizio per incominciare a cambiare.
Si deve quindi intraprendere un cammino di dialogo con gli altri, per essere per gli altri, sulla base di valori condivisi per il bene comune, perché tutti possano nuovamente godere della sicurezza perduta; la filosofia dovrebbe puntare sulla volontà individuale, sulla conoscenza e sulla sensibilizzazione specifica, per cambiare le cose, proponendo e creando spazi aperti di dialogo.
Un esempio: venire qua ogni giovedì a fare filosofia è dialogare con gli altri, è creare uno spazio di pensiero e quindi di crescita individuale assieme agli altri. Perché essere per gli altri, significa essere d’aiuto alla risoluzione dei loro ma allo stesso tempo anche dei nostri problemi. Insieme quindi uniti nella conoscenza per meglio decidere, non dimenticando che per gli altri, gli altri siamo noi.
Insomma, spetta a ognuno di noi fare sintesi, trovare posizioni di condivisione e respingere quelle in cui non ci riconosciamo. In definitiva, credo, che la filosofia dovrebbe liberarsi del velo d’indifferenza, verso l’esterno, che la circonda e che impedisce al pensiero filosofico di essere parte attiva del destino del mondo. La filosofia non può più permettersi di essere estranea e indifferente al tempo che avanza. La filosofia deve restare immersa nel proprio tempo, intervenendo con i suoi filosofi, come ha fatto oggi Stefano, a sensibilizzare l’individualità a comportamenti conformi allo sviluppo spirituale, politico, economico e sociale armonico, e quindi sapienza nella “Città” e per la “Città”. La politica deve essere intesa, nella sua espressione più nobile, non come gestione del potere della filosofia o dei filosofi, ma come attuazione delle idee filosofiche.
Nota aggiuntiva
Allora come ultima riflessione questa nota aggiuntiva scaturisce da una sintesi del dibattito televisivo all’interno del programma “Dixit”, al quale hanno partecipato il filosofo Umberto Galimberti, e il cardinale Gianfranco Ravasi sul tema della comunicazione, in particolare dei nuovi mezzi di comunicazione, PC ecc.. Sono riuscito a cogliere solo questo argomento intavolato dal cardinale Ravasi che mi sembra in tema con “Sofia e Polis”.
Come atteggiamento individuale, sostiene il cardinale, dobbiamo noi accontentarci dell’ovvio, dello scontato? La filosofia deve andare oltre questa concezione, il dialogo filosofico deve essere propedeutico all’accrescimento personale, di gruppo e quindi sociale. La filosofia è amore per la conoscenza, ma l’amore per la conoscenza non viene soddisfatto semplicemente frequentando corsi di filosofia o partecipando a dibattiti più o meno impegnativi. Per crescere veramente, bisogna andare alle domande dalle posizioni ultime, estreme perché la nostra vita abbia un senso. Qual è, in ultima analisi il senso ultimo della filosofia? Questa è la domanda che Platone mette in bocca a Socrate, allora il senso ultimo della filosofia è la ricerca, la ricerca attraverso la conoscenza. La vera conoscenza quindi è tensione dialettica verso le idee, in un susseguirsi che non raggiunge l’acquisizione di un dato definitivo. La conoscenza è allora una continua messa in discussione d’idee su idee, un superamento di se stessi, che per ritornare in se stessi ha bisogno dell’altro da sé. Nel dialogo si presentano e cadono le varie ipotesi che però non vengono completamente abbandonate ma compresse e superate (sempre pronte a essere riprese e riadattate, in un movimento in cui non esiste il termine ultimo, ma lo stesso termine iniziale non è facilmente identificabile, se non forse nella non conoscenza, nel non sapere, o meglio nel sapere di non sapere. Oppure l’unica possibilità di conoscenza è il già saputo, la conoscenza preesistente: non si parte da un nulla di conoscenza, non esiste la non conoscenza assoluta), tracciando quel movimento che non raggiunge mai una posizione statica definitiva, giacché essa equivarrebbe alla fine della ricerca e quindi alla fine della filosofia e del sapere.